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A Agalloch

Agalloch

Certi metallari si incazzano se si parla bene degli Agalloch, forse perché sono americani piuttosto che scandinavi. Poveri loro. La formazione propone un punto d’incontro fra metal, folk e ambient altamente suggestivo, e debuttò con “Pale Folklore” (‘99), che contiene l’ambiziosa (e riuscitissima) suite ‘She Painted Fire Across the Skyline’, la romantica strumentale ‘The Misshapen Steed’ e ‘Hallways of Enchanted Ebony’. Fecero decisamente leva sui loro punti di forza con “The Mantle” (2002), l’atmosfera e il romanticismo – e a mio avviso resta il loro capolavoro –, muovendosi con grazia dall’elegia di ‘In the Shadow of Our Pale Companion’ fino alla Coheniana ‘A Desolation Song’. “Ashes Against the Grain” (2006) vide forse la formazione al massimo della sua maturità, che si concentra soprattutto sul pathos, dal ‘Limbs’ all’originale ‘Our Fortress is Burning…’. A questo punto sorge il sospetto che siano sempre stati, in realtà, anzitutto degli shoegazers di prim’ordine. Quindi esaurirono in pratica la spinta creativa, sebbene almeno ‘Black Lake Niðstång’ sia un’altra dimostrazione della loro tipica competenza col cuore in mano. Mai prima di loro un qualcosa di imparentato con il black-metal è stato così melodicamente meditabondo.