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A Gil Scott-Heron

Gil Scott-Heron

A volte la vita è davvero infame: la notizia che uno dei più grandi poeti neri, deus ex-machina, padre putativo, insieme ai Last Poets di tutto il rap-hip-hop a venire sia morto in un ospedale a New York il 27 Maggio 2011 brucia più di una ferita aperta sulla quale sia stato gettato incautamente dell'acido muriatico. La stessa sostanza che Gil vomitava all'indirizzo dei potenti, qualsiasi sia il colore politico. Lui che ne aveva passate tante, dall'essere stato sbattuto in gattabuia per reati connessi all’uso di stupefacenti ed al loro spaccio,  per poi  essere  rilasciato sulla parola nel 2009 per poi tornare con un disco straordinario, "I'm New Here", l'anno dopo, di fatto l'ultimo lascito artistico del nostro.

Gil Scott Heron nasce nel 1949 a Chicago, da padre giamaicano, giocatore professionista di calcio per la squadra scozzese del Glasgow soprannominato “La Freccia Nera” e da madre americana, libraia di professione. I suoi genitori divorziano presto però e Gil vivrà da sua nonna in Tennessee, dove conoscerà e sperimenterà sulla sua pelle l’odio ed il pregiudizio razziale, perché l’unico bimbo nero in una scuola integrata. Si trasferirà poi a New York ed assorbirà tutti gli stimoli artistici che la grande mela offre: pubblicherà il suo primo romanzo, “The Vulture” nel 1968 (seguito poi nel 1974 da “The Nigger Factory”) una storia di spaccio e criminalità ambientata nel Bronx, che sarebbe potuta essere una scenografia perfetta per un film del filone Blaxplotation. Poi seguirà la carriera universitaria, purtroppo durata solo un anno, alla Lincoln University del Tennessee, ma che frutterà un incontro memorabile con il pianista Brian Jackson, nonché l’inizio di una carriera folgorante ed una serie di dischi da capogiro: l’esordio, “Small Talk at 125th and Lenox” del 1970, responsabile, insieme al disco coevo, omonimo, dei Last Poets, di tutto il rap politicizzato a venire, dai Public Enemy in giù, sciorina testi dalla vis polemica, acuminati, contro il potere e l’establishment politico, responsabile di un lavaggio del cervello collettivo ed un controllo sempre più subdolo sulle coscienze dopo che la guerra in Vietnam e la tragedia di Altamont avevano gettato un’ enorme pietra tombale sui sogni e le utopie dei Sixties: “The Revolution Will not be televised”, da una ritmica funky irresistibile e testo al vetriolo: La Rivoluzione non sarà trasmessa in Tv/la rivoluzione non sarà di nuovo con noi dopo i consigli per gli acquisti/la rivoluzione non ti metterà al posto di guida/non sarà trasmessa in Tv/non andrà in replica fratelli/la rivoluzione sarà.. dal vivo!

La stessa grandiosa canzone sarà ripresa nel successivo, incommensurabile capolavoro che è “Pieces of a Man”, incredibile crocevia di funk, blues, rap e jazz che inanella canzoni da capogiro: “Lady Day and John Coltrane”, una “Save the Children” degna del miglior Isaac Hayes, “I Think I’ll Call It Morning” che sembra uscita da un disco di Marvin Gaye o le irresistibili “Sign of the Ages” e “The Prisoner” che sembrano una riproposizione del miglior Coltrane. Se ciò non bastasse a incoronare Gil Scott Heron come il miglior cantante soul funk di tutti i tempi insieme a Stevie Wonder e pochi altri, ci pensano “Free Will” del 1972 e “Winter in America” del 1974 con il su citato Brian Jackson e con almeno tre canzoni irresistibili: “Peace Go With You Brother” intensissima ballata soul jazz e “The Bottle” dal groove irresistibile, che diverrà un classico da discoteca, con un testo che la dice chiara e forte sull’alcool ed i rischi che comporta, specie sui giovani, nonché il blues rap “H2Ogate Blues”, attacco al vetriolo all’indirizzo di Nixon e della sua idiozia e miopia.

Da quel momento in poi, Gil Scott-Heron sarà sotto sorveglianza dell’FBI, come stava accadendo negli stessi anni anche a John Lennon. Ma il nostro eroe non si arrende e sigla un contratto con la Arista pubblicando dieci album, ovvero dieci grandissimi dischi: “From South Africa to South Carolina” (1975) sempre con il fido Brian Jackson, “The First Minute of a New Day” (1975), “Bridges” (1977) e “Secrets” (1978), nonché l’immenso “Reflections” (1981) con canzoni da capogiro come “Is That Jazz”, “Morning Thoughts” e il tributo a Marvin Gaye “Inner City Blues” .

Cosa succede da questo momento in poi, non è facile capirlo. Gil dirada sempre di più l’attività concertistica e da studio, precipitando sempre più giù nel baratro della droga e finendo in carcere più di una volta. Ma l'ultima grandiosa opportunità è alle porte: l'incontro salvifico con Richard Russell della Xl fa il resto: Gil licenzia un disco grandioso, tra Jive fantascientifici ("New York is Killing Me"), dub poetry affilata come una lama (“On Coming From a Broken Home”, “Running”) oppure confessioni a cuore aperto, con quella voce al catrame profumata di miele, (“Your Soul and Mine”, “The Crutch”), in pieno stile trip-hop alla "Dummy" dei Portishead o ballate pianistiche che sembrano provenire dalla stratosfera (“I’ll Take Care of You”), nonchè riletture immaginifiche di Robert Johnson, come se quest'ultimo provenisse dal pianeta Giove (“Me and the Devil”). Da qui qualche mini tour, poi l'oblio: il tristo mietitore che cala la falce e si porta via uno dei più grandi artisti di tutti i tempi. Ciao Gil, ci vediamo dall'altra parte.