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R Recensione

8/10

John Zorn

The Crucible

Moonchild, parte 4. Scardinate le porte, bruciate le insegne, togliete i lucchetti, gettate lontano le chiavi. E mettetevi al sicuro.

Credevamo, noi, che l’incubo si fosse finalmente sublimato in “Six Litanies For Heliogabalus” dell’anno scorso, terrificante geenna avant-metal di rara potenza, bella e maestosa come non lo si sentiva ormai da tempo. Pensavamo, in qualche modo, che l’esaltazione della figura controversa dell’imperatore Elagabalo, noto nell’antica Roma per la sua eccentrica predilezione di quotidiane orge accompagnate da musica, potesse placare la furia esecutiva dell’accoppiata John Zorn/Mike Patton, l’uno a scartavetrare melodie al sax contralto (come sempre), l’altro impegnato a riempire di inconsulti sintagmi vocali il disco (idem, con patate). I due non ne hanno però abbastanza e, a dispetto delle previsioni (il progetto si sarebbe dovuto dipanare, teoricamente, in soli tre capitoli), dopo soli dodici mesi ritornano, più folli ed incontrollati che mai. “The Crucible”. Punto e a capo.

Già mi immagino, sorridendo, le obiezioni di voi, miei compagni e amici recensori: “Oh, ma che palle John Zorn”. “Ormai sappiamo che ti piace, ma lo ascolti solo tu!”. “È musica per pochi, lascia perdere”. Bene, sebbene debba convenire, in maniera quasi cronica (e un po’ triste) sulle prime due osservazioni, non così sono autorizzato a fare sull’ultima. “The Crucible”, infatti, ha a che fare tutto e niente con i suoi predecessori. Papale papale, è cosa buona e giusta muovere un po’ di critiche agli antesignani, per poter indirizzare in maniera migliore i profani. “Astronome”, seppur molto riuscito, pagava lo scotto di essere la prima tappa del percorso: “Moonchild: Songs Without Words” era eccessivamente sbilanciato verso il versante metal, annaspando per un certo deflusso compositivo e finendo, dunque, per disturbare in maniera eccessiva la sensibilità dei più; il già citato “Six Litanies For Heliogabalus”, infine, si proponeva come chiusura ideale del cerchio, con una formazione allargata (Jamie Saft e Ikue Mori fra le new entry) ed un suono più variegato e futuristico, ma i detrattori dello Zorn più free e rumoristico non avranno potuto avvicinare il materiale con facilità.

Ecco perché quest’ennesimo giro di boa dell’allegra combriccola tzadikiana può essere considerato davvero meritevole d’attenzione. Il disco, composto, ça va sans dire, in tempi record, è indubbiamente il più ricco e completo, da un punto di vista stilistico, della serie, proprio per il fatto di essere stato concepito in virtù di una maggiore gamma di influenze e, conseguentemente, di una superiore fetta di ascoltatori. “Almadel” lo testimonia: un geniale e pirotecnico klez-metal che salta subito in aria e che viene poi portato per mano da una lucida disamina sassofonistica, più attenta alle distonie di Ornette Coleman che alle abrasioni sonore tipiche degli episodi più spinti del compositore newyorchese. “Witchfinder” raddoppia la dose, con un riff gypsy distorto da una sezione chitarristica sfrigolante.

Il disco, in linea generale, vive in una dimensione molto più oscura e sottocutanea di quello che ci si sarebbe potuto aspettare. Nessuna concessione alla cacofonia più pura e gratuita, niente di vistoso o di appariscente. Eppure, questi pezzi colpiscono il bersaglio più e più volte, proprio per la loro potenza implosiva. “Maleficia” vive in estrema tensione per oltre otto minuti, con un basso strisciante e sotterraneo quasi doom, gli anatemi scagliati da monsieur Patton in sottofondo e il sax che, periodicamente, deflagra con violenza, trascinando dietro di sé polvere, detriti ed oscurità. Ha sorte simile “Incubi”, poco più di una cupissima cornice strumentale che punta i suoi stridenti fari sulla figura del leader, riscopertosi d’incanto esorcista bebop, pieno di ruggine e dolore.

Non poteva mancare, anche in questa release, l’ospitata speciale, ed ecco che alla chitarra elettrica, su “9 X 9, troviamo l’intramontabile Marc Ribot. Il risultato è una jam session molto vicina alla “Black Dog” zeppeliniana, dove le schitarrate del generoso musicistapiù blues che hard, a dirla tutta – si infrangono periodicamente contro le estrosità vocali del collega urlatore. E dire che Zorn ce l’aveva pure scritto, nel sito della Tzadik, sulla presentazione di “The Crucible”, che “including special guest guitarist Marc Ribot on one Led Zeppelin influenced track”. Maledetto sia San Tommaso.

Musica profonda, ma non impegnativa. Complessa, ma niente affatto pesante. Squassante, ma al contempo estrosa e divertente. Che sa quando mostrare i muscoli (“Shapeshifting”) e che, se vuole, sa fare più male di qualsiasi altro ideale voi abbiate in mente (il delirio disarmonico di “Hobgoblin”, allucinante tritacarne noise).

Ma che fate, siete ancora lì seduti?

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Voto degli utenti: 7,3/10 in media su 3 voti.
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fausap 9/10

C Commenti

Ci sono 3 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
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lev alle 12:58 del 8 gennaio 2009 ha scritto:

mi sa che me lo compro a scatola chiusa. tra l'altro di zorn posseggo solo "masada live in sevilla" (che è favoloso). è ora di approfondire il discorso. complimenti, gran bella recensione.

Nucifeno alle 11:20 del 11 gennaio 2009 ha scritto:

Congratulescions

Beh, niente da dire, bravo come al solito Zorn è circa un annetto che non lo sento, ma in questo periodo non sono in vena di musica troppo sperimentale, lo ascolterò più avanti quando mi ritornerà la "fiamma" zorniana ^^. Ciao!

fausap (ha votato 9 questo disco) alle 22:26 del 18 agosto 2010 ha scritto:

comprato a scatola chiusa... è devastante e bellissimo. Maleficia è unico.