R Recensione

6/10

Volcano Choir

Unmap

Pur avendo alle spalle ben sette album, non si offenderanno i componenti del collettivo sperimentale Collections Of Colonies Of Bees se mi permetto di dire che l’interesse suscitato dalla pubblicazione della loro ultima fatica si giustifica quasi esclusivamente, almeno per la stragrande maggioranza del pubblico, per la presenza alla voce del già quotatissimo JustinBon IverVernon. E non importa il tentativo di risolvere la dicotomia con un nuovo, evocativo nome qual è questo Volcano Choir. L’attesa che si è sviluppata in seguito alla pubblicazione dell’intimo capolavoro For Emma, Forever Ago esige, per una straordinariamente vasta fetta di pubblico, di essere soddisfatta attraverso una piena conferma del solo, talentuoso folk singer.

È dunque fin troppo facile (e un po’ maligno) vedere, in questa nuova uscita discografica, il tentativo di cavalcare l’onda di un successo clamoroso ed insperato, comunque gradito e meritatissimo, spremendo fino al midollo il materiale che in For Emma non ha trovato spazio o che a For Emma è accostabile per datazione ed intenzione. Così, dopo che l’EP Blood Bank (Jagjaguwar, 2009) aveva fatto piazza pulita dei pezzi “eslusi” dal disco, oggi questo Unmap arriva a completare la riesumazione di ciò che a quel disco stava “intorno”. La collaborazione fra il collettivo del Wisconsin e Justin Vernon precede infatti, per buona parte delle registrazioni, la pubblicazione di For Emma, ma precede anche la sua scrittura, datando il songwriting di Unmap addirittura all’estate del 2005, in coincidenza con il tour che vide i Bees dividere il palco con i DeYarmond Edison, gruppo nel quale Justin, all’epoca, cantava senza troppa soddisfazione.

Da un’intervista con Chris Rosenau, chitarrista e membro originario dei Bees, apprendiamo che il contributo di Vernon per Unmap nasce dalla sua personale esigenza di sperimentare ed affinare quell’idea di falsetto corale poi apparsa così magnificamente compiuta su For Emma, Forever Ago.

Come dire che in Unmap sono raccolti i germogli dei magnifici frutti che sarebbero venuti di lì a poco.

Formalmente sarà anche così, sostanzialmente non lo è affatto. Nel senso che un qualunque fan di Bon Iver, ma non solo, potrebbe, una volta acquistato questo disco, scaraventarlo dal finestrino della macchina prima ancora di essere arrivato a casa. Non basta certo il falsetto corale, il timbro caldo ed avvolgente e la potente espressività melodica della voce, infatti, a ricreare la magia di For Emma (e non è questo, evidentemente, l’intento del disco), soprattutto se questa voce si dispiega su di un tessuto musicale algido e frammentato, prodotto da un gruppo che dichiaratamente punta a far confluire in ambito pop l’avanguardia di Rhys Chatham e Glenn Branca.

Unmap si discosta molto dal materiale di For Emma ed è sicuramente più avvicinabile alla seconda parte del Blood Bank EP, dove la componente “avant”, in brani quali Babys e Woods, si palesa con maggiore evidenza. La musica dei Bees è qualcosa di estremamente indefinito, che trova riferimenti nella natura e musicalmente in territori fra loro lontanissimi: dal post e dal math rock a David Sylvian, dall’acustica intimità dei Pullman a Steve Reich, dalle sperimentazioni sonore di Tom Waits all’espressività di matrice islandese. È una trama composta da micro-loop di chitarra o tastiere, insetti, foglie, apparecchi o quant’altro, che si sovrappongono a formare flussi atonali, monotoni, interrotti o disturbati in continuazione da mille diavolerie elettroniche. Uno sciame d’api. Il basso, minimale e profondo, preferibilmente scandito sui battere, è l’elemento che permette, cambiando la tonica, l’attribuzione di un carattere armonico alle varie battute. Il resto lo fa la voce di Justin, dosata con parsimonia lungo lo sviluppo dei brani, così che praticamente nessuno di essi possa essere etichettato come “canzone” ma sempre come “esperimento”.

Nell’iniziale Husks And Shells è solo nel brevissimo finale che Justin canta sul modello che conosciamo. Il resto sono cori isolati, sparsi su un arpeggio acustico ripetuto e perso fra rumori che vanno dal canto dei grilli al “beep” realistico di un metronomo digitale. Similare è And Gather, dove un basso mono-nota  dà corpo ai filamenti acustici su cui la voce si esprime più con versi che con parole. Voce che si articola invece in episodi quali Mbira In The Morass, disgregato incontro musicale di pioggia sui vetri e di rumori meccanici, o nella conclusiva Youlogy, sentiero di feedback statico su cui si muove una melodia che negli attacchi delle note alte trova la sua miglior ragione d’essere e nel finale di sola voce, dal sapore fortemente religioso, la giusta eco da porre in chiusura.

Si tratta in generale di pezzi che lasciano un po’ il tempo che trovano. Il carattere sperimentale, come spesso accade (e non dovrebbe), rende criptica l’espressione sonora, a causa sia dell’ostilità oggettiva che il carattere monolitico e monotono comporta, sia di una fin troppo manifesta piattezza di idee. L’estremo in questo senso lo troviamo nei tre minuti scarsi di Dote: un loop di rumori e fruscii di fondo su cui la voce può solo vibrare come un mantra senza articolare nulla. All’opposto sta il minuto di Cool Knowledge, che appoggia una batteria mai così pesante su un puzzle di due voci a cappella, una bassa ad accentare il ritmo, l’altra a disegnare un’orecchiabile melodia attraverso scale in salita e discesa. Unico brano a contemplare un eventuale concetto di divertimento, dura un minuto uno, significativamente.

Il meglio l’ho lasciato per la fine: pezzi quali Seeplymouth, Island, Is e, perché no, il già noto Still, apparso in versione a cappella e col titolo Woods sul Blood Bank EP, sono senz’altro da sentire, piacciano oppure no. Seeplymouth e l’apoteosi del potenziale dei Bees. Un crescendo continuo, lineare, su riff reiterati e loop che si accumulano, fra Ian Williams e psichedelia, s’infrange nel nulla aprendo alla voce e al sapore inconfondibile dell’Islanda. Tom e timpani arrivano a scandire l’emozionante delay delle parole, lasciano ancora Justin da solo a sfidare i limiti dell’intonazione e tornano sottolineando un’entrata epica, davvero bella, che dal punto di vista emozionale rappresenta l’apice del lavoro. Il finale è un esasperazione un po’ forzata del crescendo che, lentamente, fin troppo, volge inesorabile verso il rumore.

Island, Is è il cosiddetto singolo dell’album, ed in effetti è ciò che all’idea di singolo più si avvicina. I loop di tastiera e chitarra, brevissimi, sono qui contenuti in una rete percussiva avvincente che spezza il carattere ultra-riflessivo del lavoro e dona al brano un carattere scherzoso ed incredibilmente vicino ad un’idea pop. La melodia rotonda, equilibrata ed elegante di Justin, pur sembrando un furto al repertorio degli Animal Collective, completa il lavoro consegnandoci un pezzo magnetico, personale ed originale, che dovendo la propria unicità a tutti i soggetti coinvolti rappresenta il risultato ideale che da questa collaborazione ci si poteva aspettare.

Unmap si presenta alla fine come un album di contrasti, uno spigolo fra mondi lontani. Aperto e arioso così come convulso e opprimente, dinamico quanto immobile, sorprendente quanto intriso di ripetitività e pazienza. Sono pochi gli episodi in cui questi opposti concorrono a formare efficacemente un nuovo “uno”. Sono più le volte in cui il senso di smarrimento emerge prepotentemente. Come se l’ascoltatore fosse chiamato a godere di un lavoro destinato più probabilmente agli artefici dello stesso che non all’utenza pagante. Di positivo ci sono le visioni di un innovativo e plausibile connubio futuro fra due mondi, quello della sperimentazione e quello del cantautorato, che solo alcuni fra i nomi più grandi (Waits, Sylvian, Walker per citarne tre) sono riusciti a rendere non solo possibile, ma soprattutto estremamente compiuto.

In sostanza, il valore del disco sta più nel suo carattere documentale che non nella qualità intrinseca della musica. E non ce ne voglia il buon Justin se, senza mettere in dubbio nella maniera più assoluta la buona fede sua e quella degli altri protagonisti di Unmap, ricordiamo a lui, ai Bees e a quelli della Jagjaguwar che no, ragazzi, non è mica sempre domenica.

Sito ufficiale: www.volcanochoir.com

MySpace: www.myspace.com/volcanochoir

V Voti

Voto degli utenti: 6,3/10 in media su 3 voti.
10
9,5
9
8,5
8
7,5
7
6,5
6
5,5
5
4,5
4
3,5
3
2,5
2
1,5
1
0,5
target 5/10

C Commenti

Ci sono 4 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
Effettua l'accesso o registrati per commentare.

hiperwlt (ha votato 6 questo disco) alle 10:13 del 19 novembre 2009 ha scritto:

ottimo lavoro paolo, una recensione dietro l'altra ultimamente! il disco l'ho ascoltato abbastanza nell'ultimo periodo e le canzoni trainanti (seeplymouth,island is,still) sono(oltre che ben delineate nella recensione) state individuate durante i miei ascolti. oggi lo riprendo,passerò a commentare.

farmerjohn (ha votato 8 questo disco) alle 10:59 del 19 novembre 2009 ha scritto:

Non è un disco di canzoni ma è comunque ispirato e non paraculo secondo me. Da ascoltare all'alba o al crepuscolo.

target (ha votato 5 questo disco) alle 12:25 del 19 novembre 2009 ha scritto:

D'accordo con tutto ciò che scrive il Gaz. Per il disco userei l'aggettivo 'solipsistico', se non fosse che 'masturbatorio' mi sembra rendere meglio l'idea. E secondo me pure l'ispirazione è latente. I pezzi buoni, sì, sono quelli: ma è un po' poco, direi, per farci un disco.

hiperwlt (ha votato 6 questo disco) alle 18:21 del 19 novembre 2009 ha scritto:

un pò spaccone il buon bon?forse. in effetti, molti brani paiono fini a se stessi ("and ghater", "youlogy",su tutte). oltre ai già citati seeplymouth" e "island is",aggiungerei un altro brano, secondo me, che spicca parecchio: "dote". ho fatto un lungo lungo viaggio con questa canzone, mi ricorda posti già visti in "treefingers".francesco, sono quasi certo che "dote" per te sia la summa del concetto di "masturbatorio"!

6.5