Bent Knee
Say so
Dire che fanno art rock è poco più che affermare che suonano. Le parole di un critico musicale statunitense esprimono bene la difficoltà di etichettare la musica dei Bent Knee, nuovo fenomeno della scena musicale avant statunitense, partiti da Boston ed osannati dalla stampa specializzata, nonché oggetto di un inusuale endorsement da parte di una compagnia vicina alla Cuneiform per cui incidono, la Moon June di Leonardo Pavkovic. Il sestetto sfugge alle ovvie e plausibili definizioni già a partire dalla line up, che include un violinista, Chris Baum, e dal vivo schiera una giunonica front woman tastierista e cantante dalle doti vocali non comuni, Courtney Swain, davanti a sezione ritmica (Gavin Wallace-Ailsworth e Jessica Kion), chitarre e tastiere (Ben Levin e Vince Welch). Se poi si affronta lascolto di Say so terza prova su cd dopo lesordio del 2011 ed il seguente Shiny Eyed Babies, si deve scegliere di fronte ad un bivio:dotarsi di una pesante cassetta degli attrezzi critica per tentare di descrivere il patchwork di stili, umori e climi sonori che compongono la proposta del gruppo, oppure semplicemente lasciarsi trasportare da un flusso musicale coinvolgente ed avvincente senza porsi problemi di interpretazione. Avendole provate entrambe, a seconda delle circostanze di ascolto, non viene comunque meno la voglia di abbozzare una descrizione, che è poi il fine e lo scopo di queste righe rivolte a chi quel bivio deve ancora varcare. E allora partiamo dai dati più elementari da mettere in fila.
Innanzitutto lespressiva voce della Swain che domina Say so dalla prima allultima traccia, trasformandosi in canto, coro, sussurro o grida, e la cui espressività sfrontata ed aggressiva diventa elemento strutturale delle canzoni. Quindi, un evidente propensione per luso degli ostinati ritmici che sostengono le elaborate evoluzioni canore e quelle, più controllate, degli strumenti. Infine, una moderata profusione di aromi progressive e di melodie di stampo orientale. Elementi che si ritrovano al completo in Leak water che immerge un phrasing debitore di Joni Mitchell in un largo lago prog, o nelle acide atmosfere e nel climax cangiante di Commercial, o ancora nelle declamazioni corali seguite da autentiche esplosioni noise di Counselor, o ancora nelle pacate recitazioni dellinziale Black tar water, che si potrebbe immaginare estratta dal repertorio di Anthony. Se unanima jazz abita Nakami, prima di un imprevedibile trasformazione in funky groove, The thing you love è una eterea e straniata ballad sostenuta da un refrain vocale avvolgente che si conclude in un moloch corale, lessenza di Hand down girl è quella di una scandita e scattante pop song, e la finale Good girl si sviluppa come uno slow su una base di chitarre bluesy. Lascio per ultima Eve perché in questo caso sono a corto di aggettivi: in nove minuti succede di tutto, dallestasi alla furia sonora fino al cabaret, un pezzo che gli stessi Bent Knee definiscono epico, radicale e pieno di svolte e torsioni. Eccola, la definizione tanto a lungo cercata per questa musica: bastava chiederla a loro.
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