Dirty Projectors
Rise Above
Immaginate. Che cos’hanno in comune un polistrumentista, nerd e occhialuto, che bazzica i lidi sonori folkeggianti di Xavier Rudd e Devendra Banhart (solo per citare i più famosi, ma si potrebbe continuare) con i Black Flag, una delle più famose band americane di hardcore punk ottantiano, assieme a Misfits e Dead Kennedys?
Immaginate. Che cos’hanno in comune delle chitarre acustiche, una marimba, gli strumenti a fiato più disparati con una feedback elettrico, un basso, una cresta, una manciata di testi al vetriolo e una doppia cassa sparata a mille? Dite bene: niente. O, meglio: dicevate bene. Perché il punto di connessione fra questi due mondi si chiama Dirty Projectors.
Gli “sporchi progettisti”, in realtà, fanno capo ad una sola persona, proprio il famoso nerd di cui avevamo trascorso prima, al secolo Dave Longstreth. Il suo è un progetto quantomeno ardito e bizzarro: riscrivere personalmente, secondo le memorie dell’adolescenza, e con un gusto alt rock/post-folk del tutto nuovo, la pietra miliare delle “bandiere nere”, “Damaged”, datata 1981. Il perché di questa singolarissima esperienza ce lo spiega proprio Longstreth che in un'itervista a Rumore dichiara: “Avevo 13 anni e mio fratello si era fissato con questa cassetta dei Black Flag. Ricordo di essere rimasto completamente traumatizzato da quel disco che per mesi non ho fatto altro che ascoltare “Damaged” e “Please Please Me” dei Beatles, tutto il giorno, senza riuscire a smettere. […] È stato allora che ho avuto l’idea di riscrivere tutto il disco basandomi esclusivamente sui miei ricordi, sulla reminescenza della mia personale esperienza di “Damaged”. […]”.
Vista l’abissale differenza che concorre fra i due rispettivi emisferi musicali di appartenenza, un po’ di curiosità è naturale che salti fuori. Ma il risultato finale è davvero sconvolgente, positivamente o negativamente che ne diciate: il lavoro dei Black Flag si trasforma, minuto dopo minuto, in un continuo girotondo cromatico e pastellato, di quelli che sembrano usciti dal gessetto di un bambino newyorchese, tutto intento a disegnare su un marciapiede. Nessuna traccia della nervosa, ribelle velocità esecutiva, nessuna traccia dello screaming tipico di Greg Ginn, poco o niente di attitudine prettamente punk: la storia del fratello e della cassetta è solamente un pretesto che Longstreth utilizza per scrivere un disco tutto suo, dove suona lui con i suoi molteplici strumenti, e dove ogni più piccolo stravolgimento è fissato a fuoco su nastro, in modo da ingigantirlo e rendere il tutto ancora più strano. Gli stessi brani perdono completamente la connotazione originale: non sono più schegge letali da due minuti, due minuti e mezzo al massimo, bensì lunghe dilatazioni ritmico/musicali che si estendono anche ben oltre i cinque minuti.
Si capisce subito che il lavoro messo in atto dai Dirty Projectors è tutto tranne che un’opera di coverizzazione: se la “What I See” dei Black Flag era un vero e proprio proiettile d’acciaio, rapido e cupo, la rilettura di Longstreth ha i connotati sbalorditivi di un folk/reggae caraibico, aperto e solare, che solo occasionalmente trascende dai suoi coretti festosi per dilagare in territori vicini al noise meno caustico. “No More”, invece, è addirittura aperta da un insieme pomposo di archi, che scende velocemente a parabola verso il Devendra Banhart ultimo periodo (“Carmencita” vi dice qualcosa…?).
Gli esempi più straordinari di quella che è la spiccata e prolifica fantasia creativa del nucleo cerebrale dei Dirty Projectors si ha però in pezzi come “Thirsty And Miserable”, due minuti stentati nella versione originale, sei tondi tondi in questa. Gli arpeggi di chitarra, che costituiscono la matassa ritmica del brano, accompagnano la voce nasale di Longstreth (vicina paradossalemente per un attimo a Thom Yorke!), vera padrona del pezzo, in mezzo a sporadici, agghiaccianti rumorismi punk, quasi a dimostrare che, sotto sotto, l’anima di Ginn e compagni c’è eccome.
Assolutamente da segnalare anche la bellissima –e liberissima- interpretazione di “Spray Paint”, che da breve stacco introduttivo in “Damaged” si trasforma in un quantomeno cabarettistico schizzo rurale, o ancora della stupefacente title-track, vero e proprio manifesto hardcore di tutti i tempi, che qui si deforma in un mantra alt rock frenetico e stralunato, senza per questo perdere una sottilissima patina rivoltosa che permea i controcori femminili in sottofondo.
La perla ha, comunque, il nome di “Six Pack”: il missile dei Black Flag viene disattivato, abbellito, reso inoffensivo, e mutuato in un teatrino tragicomico a metà fra le convulsioni vocali degli ultimi Modest Mouse e gli arabeschi country dipinti da una chitarra screziata.
In questo “Rise Above”, dunque, non si apprezza solamente il coraggio di aver “assaltato” uno dei cd più importanti degli anni ’80, bensì quello di avere assistito a qualcosa di bello, fondato e, soprattutto, irripetibile. Perché, il prossimo che tenta un’impresa del genere, verrà sicuramente additato come copione. E cedere alla tentazione di copiare queste undici canzoni può essere davvero irrinunciabile.
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