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R Recensione

6/10

Il Sogno Del Marinaio

La Busta Gialla

Eccolo lì, di nuovo. Uno gira la testa per una frazione di secondo, e quell'altro scompare all'orizzonte, sorriso piantato in faccia, basso perennemente a tracolla. Cosa ci si vuole fare? Se un ragazzino cicciotto ti frana ai piedi, cadendo da un albero, il segno premonitore è chiaro e sta di fronte agli occhi per tutta una vita. Un'esistenza inusuale per una carriera inusuale, la cresta del punk, l'autodeterminazione hardcore, il ritmo funk e la maestria dell'avanguardista. Il nuovo progetto di Mike Watt (qualcuno si è mai dato la pena di contarli tutti, dai Minutemen in avanti?) prende corpo grossomodo con lo stesso canovaccio lungo il quale erano nati i - solo discreti - Floored By Four: incontro e scontro di linguaggi, influenze, culture e geografie, un paio di jam assieme, quel sentimento inesplicabile che scatta nell'aria con la forza di un paio di tenaglie et voilà!, il disco è servito. E mai che si tratti di comprimari, mai che il signor Watt senta il desiderio di autocelebrarsi pienamente relegando moralmente a turnisti i compagni con i quali decide di intraprendere i propri viaggi. Il Sogno Del Marinaio (correspondances post rock à go-go) prende vita come solido power trio con Andrea Belfi alla batteria e Stefano Pilia (detto niente...) a tessere complessi orditi alla sei corde, pochi anni dopo il ritorno alla ribalta nazionale con l'ottimo "Cattive Abitudini" scritto in seno ai Massimo Volume.

Uno gira la testa per una frazione di secondo e scopre che, tutto sommato, niente è veramente cambiato. Così il dream team di cui sopra confeziona un viaggio concettuale e spirituale che si snoda attraverso otto brani, quasi completamente strumentali. "La Busta Gialla" è il classico disco - aggettivo "classico", almeno per una volta, non usato a sproposito - che sorprende d'impatto per la coesione, stupisce alla seconda per la validità delle idee, suscita ammirazione non meglio specificata in seguito. Presa in sè e di per sè, ad esempio, "Zoom" raderebbe al suolo le ambizioni del 90% dei gruppi rock emergenti: ariosa apertura alla Slowdive, alzata di scudi in carburazione con dissoluzione dei vincoli-canzone, ricalcolo immediato del tiro e lento sfumare misterico su una coda di blues scheletrico, suburbano. Non stupirebbe apprendere si tratti di un'improvvisazione in presa diretta ma, anche se così fosse, esemplare (nell'accezione originaria del termine) è la conduzione applicata per ogni singola sezione, tanto che otto minuti si riducono quasi ad un battito di ciglia. Al contrario, più di un episodio secondario, a latere, si scopre non aver centrato granché il bersaglio, e più per sopravvalutazione dell'ascoltatore che per reali limiti ontici: a lungo andare estenuante "Messed-Up Machine", borbottante ed invariata narrazione di basso appena screziata da field recordings e patch elettronici, un po' pretenzioso il recital ossianico de "I Guardiani Del Faro" (steel guitar, electric guitar, gabbiani in sottofondo e il parlato di Manuele Giannini degli Starfuckers in primo piano) e sostanzialmente insoluta, tra velleità melodiche e spinosi avvoltolamenti, "The Tiger Princess", dove al microfono interviene direttamente il deus ex machina.

Gira e rigira la testa, alle prese con tutta questa bonanza strumentale che preserva intatta la libertà espressiva senza andare a cercarsi improbabili voli pindarici, uno ci rimane comunque affezionato. Se lo sfumare sognante in riverbero di "Joyfuzz" - con sovraincisioni in sax e metallofono quasi Jaga Jazzist - azzecca la durata, e "Punkinhead Ahoy!" sono sempre i Minutemen in agguato dietro l'angolo, trent'anni dopo, forma diversa (incredibili le chitarrine funk glassate surf di Pilia) ma spirito intatto, sono altre le canzoni a (per)durare. La dinoccolata andatura exotica di "Funanori Jig" con crocchie d'arpeggi uno più inventivo dell'altro ed un gioco saltabeccante di armonici da leccarsi i baffi, o la complessa sovrastruttura armonica, internamente post ed esteriormente avant, che colora gli Henry Cow jazz rock di "Partisan Song" (chapeau), esplodono come manifesti di mai domo respiro culturale: e si sa che "culturale", a certi livelli, è sinonimo di "politico".

Mezzo voto in meno solo per la tendenza, persistente, a non riconsiderare seriamente l'estemporaneità di side project del genere.

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