Qui w/ Trevor Dunn
Qui w/ Trevor Dunn
Di un disco che, senza preavviso alcuno, fa saltare fuori una relativamente fedele cover della Ashtray Heart beefheartiana cantata, per loccasione, nientemeno che da King Buzzo (e con quellaltro sciroccato dellex Melvins Kevin Rutmanis alla slide guitar) non posso non pensare due cose: quando qualcuno di famoso disse vegliate, dunque, perché non sapete né il giorno né lora si riferiva agli anni 90 (il novanta vien di notte / con le scarpe tutte rotte ), oppure ipotesi anchessa assai novantiana lascoltatore si trova al centro del fuoco incrociato di una gigantesca presa per il culo. Il profilo dei possibili perpetratori, peraltro, è solido: trattasi dei malandrini losangelini Qui, ritornati in pompa magna alle loro qui-squilie (ah ha), dopo un periodo di silenzio discografico, con una raffica di uscite sul formato breve e lungo al di là e al di qua delloceano. Poco prima dello split con i formidabili Ultrakelvin di cui si disse su queste pagine esattamente un anno fa, successe questaltra cosa: un intero LP registrato per Joyful Noise (!) con il basso di Trevor Dunn in formazione (!!), sulla falsariga a proposito di cerchi che si chiudono dellesperienza Melvins Lite che portò, nel 2012, al bel Freak Puke (!!!). E dal momento che del piatto ricco mi ci ficco la straordinaria Macina Dischi ha fatto uno stile di vita, rendendo oggi disponibile in formato cd il vinile originario, sarebbe perlomeno irrispettoso non approfittare delloccasione.
Aldilà di ogni discorso particolaristico, il crossover dei Noughties si contraddistingueva per un paio di aspetti. Il primo, la tendenza a scaraventare in un unico cesto tutto quello che passava per la testa dei musicisti, in un melting pot ciclopico e centrifugo capace di partorire ibridi interessantissimi e solenni schifezze. Il secondo, da esso derivato, la propensione a giocare con gli stili anche a livello umorale, asfaltando assieme alto e basso, fondendo solenne e triviale, serioso e carnevalesco. Questa Gestalt freak che, a forza di spostare più in là i confini dellimprevedibilità, diviene perfettamente predicibile è ancora la struttura espressiva preferita dei Qui, un clash perpetuo portato allestremo con conseguenze a tratti esilaranti (il piano gospel polifonico di Splinter Hole sfregiato da dissonanti chitarre noise) e a tratti irritanti (la singhiozzante salmodia klezmer-core di My Great Idea, con chiusura incentrata sugli ariosi archi di Dunn, sembra solo scimmiottare certi Mr. Bungle). Quando il famolo strano non rinuncia ad una propria coerenza interna il disco convince molto di più: così il plastico rifferama di Buon Giorno Nicolo, tra Nomeansno e Scratch Acid, viene accarezzato da falsetti fonosimbolici, mentre la micidiale rasoiata Tomahawk di Sexual Friend indovina il ritornello da crooner e la conclusiva Weirder Gender, dove la chitarra di Matt Cronk viene travolta da un attacco di acida logorrea, è una passerella per limpeccabile conduzione ritmica di Dunn.
Proprio Dunn, assieme ad altri frammenti della galassia melvinsiana (Dale Crover) e ad illustri reduci del rumore novantiano (Justin Pearson, Toshi Kasai), si unisce ancora una volta allideale successore di questa sgambata, il discreto Snuh, uscito questanno per Three One G e Antena Krzyku. Come il disco qui preso in esame, non è un capolavoro (forse i Qui non ne scriveranno mai uno), ma è onesto e divertente: e chi si accontenta, a volte, gode.
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