These New Puritans
Field of Reeds
Prosegue la corsa verso l'autismo da parte di Jack Barnett e della sua band. Chi trovò pesante "Hidden", pur con la sua forte componente ritmica, farebbe bene a stare alla larga da questa nuova prova. Che in tutta onestà un po' stancante lo è, basti dire che di nove brani (per 53 minuti di durata), soltanto tre fanno un utilizzo significativo della batteria. La cosa è shockante se appunto si considera che l'album precedente era un assalto di tamburi minacciosi, roba da trincea. Molti dei nuovi pezzi si limitano invece a far scorrere le nenie vocali di Barnett fra tastiere, pianoforte, vibrafoni, cori e orchestra.
A riportare l'ascoltatore in casa sono alcune costanti, ormai marchi di fabbrica dell'autore: il timbro oscuro, i rimandi alla musica classica, gli arrangiamenti corali. Insomma, nonostante il sorprendente svuotamento ritmico, "Field of Reeds" è la legittima, naturale (e estremizzata) prosecuzione di "Hidden".
L'album ci permette di collocare i These New Puritans nel calderone dei musicisti che negli ultimi decenni hanno tentato un connubio fra sperimentazione e spiritualità, cosmo e intimismo. Vengono in mente Phil Elvrum e i suoi Microphones con la sinfonia di "Mount Eerie", la musica al rallentatore dei Bark Psychosis (il cui leader, Graham Sutton, è non a caso co-produttore di questo disco), le prove più recenti di cantautori estremi e solitari come David Sylvian e Scott Walker. Non cercate di rintracciare questi nomi in "Field of Reeds" però, il giochino del minestrone in questo caso non funziona: si sta semplicemente cercando di indicare un mood, comune fra un certo tipo di artisti. Musica opprimente ma al contempo riflessiva, oscura ma non gotica.
Volendo scovare dei rimandi diretti si fa prima a cercare nella classica: il minimalismo di Philip Glass certamente, ma anche gli ostici paesaggi di Ligeti, le eteree strutture orchestrali di Debussy, il senso melodico dei compositori rinascimentali inglesi come William Byrd e Thomas Tallis, dichiarati pallini di Barnett.
Partorito dopo sfiancanti sessioni in studio, in cui pare che Barnett abbia fatto impazzire i propri collaboratori a suon di richieste e aggiustamenti, "Field of Reeds" non ha la compattezza di "Hidden", né la forza d'impatto o la carica innovativa. Riesce però a sfiorarne l'espressività e addirittura a superarne il rigore. Inoltre, a dispetto di un paio di momenti in cui la trascina un po' per le lunghe, contiene una manciata di grandi brani.
"Fragment Two" è il singolo di lancio (si fa per dire, visto che l'album s'è fermato al numero 90 della classifica britannica), una sorta di ballata dalle tinte jazz, con batteria irregolare e corredo di musica da camera. "V (Island Song)" si apre con soli piano e voce, evolve in un diabolico bolero e defluisce infine in una coda di musica d'ambiente. "Organ Eternal", con il suo attacco melodico e minimalista, è probabilmente il pezzo più vivace dell'album (il che è tutto dire): ascoltata in cuffia rivela in pieno il labirinto mentale di Barnett, fra strati orchestrali, corali e elettronici. Un gioco di incastri totale fra melodie, riff, droni, armonia e cacofonia. Infine c'è la title-track, un colossale muro di voci fra le quali spicca quella di Adrian Peacock, a tenere note incredibilmente basse: un gorgo che inghiotte senza pietà. Si tratta del brano probabilmente più sofferto dell'album, a giudicare anche da come si contorce la voce di Barnett durante il suo sviluppo. Nel mio personale e perverso giochino di assonanze, mentre la ascolto mi viene da pensare alla "Preghiera di penitenza per la Russia" di Tchaikovsky (problemi miei suppongo).
Nota di fondo: da non perdere il videoclip abbinato a "Fragment Two", fra i più belli degli ultimi anni. Lo ha curato Daniel Askill, valente artista australiano già al fianco dei These New Puritans per l'inno "We Want War".
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