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R Recensione

7,5/10

Ulan Bator

En France / En Transe

L’evoluzione degli Ulan Bator non è mai stata lineare, prevedibile o in qualche modo pianificata con arte strategica. La distanza genetica della creatura che oggi risponde al nome della capitale della Mongolia è impressionante anche se paragonata alla precedente tappa del viaggio, quel “Tohu-Bohu” che nel 2010 aveva colpito per capacità di sintesi fra i linguaggi sperimentati dalla band nel corso della sua caparbia esistenza. Il (nuovo) drastico cambio di line-up attorno ad Amaury Cambuzat (leader/chitarrista/cantante, ispiratore e fondatore di quell’astrazione concretissima rappresentata dagli Ulan Bator), deve aver costituito la prima fase della ricostruzione degli ideali sonici che da sempre hanno dato fuoco all’ardimentoso agire della formazione franco-italiana: stavolta i comprimari sono Diego Vinciarelli al basso e al piano Rhodes, Luca Andriola alle batterie e alle percussioni e Nathalie Forget alle voci e alle Ondes Martenot.

L’inizio di Takeoff tratteggia immediatamente le coordinate espressive di un lavoro che non vuole avere forme troppo definite: un crescendo ipnotico ed isterico, che in ognuno dei dieci minuti che lo costituiscono, irretisce l’ascoltatore in una selva oscura che pare disegnata da Michael Gira.

Una atmosfera narcolettica, increspata da inquieti fremiti ritmici, fa da sfondo all’incubo erotico di We R You, nella quale riecheggiano le intuizioni dei Portishead di “Third”.

Il furore matematico che divampò nei primi Ulan Bator, riemerge furibondo in Ah Ham, incrociandosi – ancora una volta – con gli esiti cicatriziali della veemenza improvvisativa dei King Crimson era ’73-’74. Partorita da una medesima indole, ma più orientata verso la coniugazione delle deflagranti istanze dei Sonic Youth e le destabilizzanti geometrie dei Can, la lancinante cavalcata di Bugurach, che si caratterizza come uno dei momenti cruciali di “En France / En Transe”.

Accostabili alle esigenze disturbanti e conturbanti degli Swans, sia la molestia sottocutanea di Colère, sia la smaniosa intemperanza di Song For The Deaf.

Fakir risplende sotto lo stesso sole rabbioso dei Fugazi e dei June Of 44, dimostrando che per gli Ulan Bator l’impeto è ben lungi dall’essere minimamente affievolito.

La title-track chiude l’album con la voce di Nathalie Forget intenta a tratteggiare una ninna-nanna noise compenetrata ad un contesto sonoro sussultorio, che delinea l’unica forma di “pace” possibile per gli Ulan Bator.

En France / En Transe” è un laboratorio di suoni in divenire, una fucina di visioni estratte dalla carne viva. E’ un disco che sembra nascere da una vitalità degna di un live (anche piuttosto “selvaggio”): nulla risulta artefatto, attenuato, distolto dalla sua ostica natura, ricondotto alle buone maniere, alla consuetudine, alle tendenze, alle necessità formali della produzione. Anche a scapito di apparire appunto una sorta di “live album” poco compatibile alle pratiche compromissorie del lavoro in studio, inteso come luogo nel quale l’irruenza dovrebbe strutturarsi per apparire organica o il più possibile finita, definita, definitiva. “En France / En Transe” se ne sbatte di tutto ciò e ci restituisce una band che si spoglia anche dei pochi orpelli dei quali si è arricchita nel corso dei suoi vent’anni di ruggente esistenza, per riconsegnarsi ai suoi estimatori nella sua più pura essenza. La progressione prosegue.

 

(Il disco, finanziato attraverso il crowdfunding, è per ora disponibile solo attraverso il sito ufficiale degli Ulan Bator)

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