Yonatan Gat
Universalists
Che fumettoso e supereroistico, quel wrestling old style in cui ogni atleta aveva assegnata una caratterizzazione, se non da Caratteri di Teofrasto, da commedia dellarte italiana: il Nature Boy Ric Flair, Macho Man Randy Savage, Abdullah the Butcher, lorso russo Ivan Koloff e lanimale George Steele. Volti, voci, corpi di unepoca perlopiù andata, svanita. Come andata, svanita è la gimmick dei furono Monotonix, gli ultimi fuoriclasse dellagonizzante carrozzone del rocknroll: per loro gli epiteti non servono. Chi scrive ebbe la straordinaria fortuna di vederli a due passi da casa otto anni orsono, precisamente in questi giorni: tutto sommato poco possono le parole, di fronte a testimonianze video del genere. Cè, poi, un altro episodio di quellevento, che ricordo nitidamente anche senza la testimonianza dellennesimo occhio digitale: il gruppo al completo a dare spettacolo, sotto la stipatissima tensostruttura delle patatine, e io a dieci centimetri dal chitarrista Yonatan Gat, a guardarlo incastrare nella sua beata noncuranza gli sporchissimi accordi super-garage di Try Try Try (li saprei, ancora oggi, riprodurre a memoria). Il gruppo, poi, dopo aver dato alle stampe il buon Not Yet, si sciolse lanno dopo. Il folle Ami Shalev si unì agli Hapartizanim. Haggai Fershtman si sposò e scomparve nel nulla. Di Gat, transfugo negli USA, non ebbi più notizie, fino a qualche mese fa.
Lunica parola che mi incute quasi più terrore di opera rock è world. Nella prototipizzazione della realtà che faccio quotidianamente, world mi richiama immediatamente alla mente due cose intimamente connesse fra loro: 1) lindebita appropriazione culturale (leggi neocolonialismo occidentale) di patrimoni artistici altri, altrimenti troppo lontani dal pensiero e dal gusto dellascoltatore medio di massa; 2) la più sostanziale e pervasiva manifestazione della globalizzazione, un mostro votato alla beneficenza mediatica che pialla e addomestica ogni peculiarità cultura-specifica. Difficile non essere recalcitranti con queste premesse. Altrettanto difficile delineare le caratteristiche del disco world ideale (ma davvero non cerano altre etichette disponibili oltre a world?). Dal mio personalissimo punto di vista, chi si imbarcasse in questa impresa a perdere dovrebbe scolpire nel cristallo due sacri principi: il rispetto filologico della fonte e loriginalità dellinterpretazione. La forza dirompente di Universalists sta nel suo creare a getto continuo nuove ed entusiasmanti architetture partendo dalla manipolazione di materiali preesistenti, assemblati in forme inconsuete ed accostati in un poliglotta, postmoderno paradigma funzionale. Guardare alla luna e scorgervi carovane di beduini. Arte performativa in un circolo anziani. Una giustapposizione di mondi che dà vita ad un altro mondo.
È una scossa selvaggia, quella che percorre la spina dorsale di Universalists dal primo allultimo secondo della sua riproduzione: lentusiasmo elettrico di assistere al comporsi e al disfarsi di una liturgia itinerante (ogni brano è registrato in una location differente, dentro e fuori dagli Stati Uniti) sinceramente libera da ogni restrizione. Il modus operandi del brano iniziale, Cue The Machines, è indicativo dellonnivora curiosità che agita cuore ed arti dei musicisti allopera: il sample di un trallallero genovese a suo tempo registrato da Alan Lomax viene frammentato, deformato, trasformato in contrappunto hip hop per una tracimante cavalcata surf, unintensa trenodia strumentale tempestata di bozzi (gli indemoniati pattern ritmici di Gal Lazer stanno a metà fra il free jazz, i Taliban! e Balázs Pándi) ed interpretata da unorchestrina in assetto di gala. Sulla lounge matematica di Fading Casino aleggia uno straniamento onirico che nemmeno un copioso assolo bluesy è in grado di dissipare: lelemento ludico permea anche una Dream Sequence che pare uscita dal parco giochi dei primi Battles braxtoniani (la microvariazione scomposta di una breve frase melodica costruita circolarmente), mentre Projections è un allucinato paso doble motorik punteggiato dal sanguigno sax di Matt Bauder e dalle spettrali backing tracks di un antico canto lombardo (le esecutrici, anchesse interpellate da Lomax, sono Celeste Cappelli, Gina Bonetti e Pace Cominelli).
A tratti sembra persino impossibile che lo Yonatan Gat dei Monotonix beffardo, lercio, iconoclasta sia la stessa mente delle sofisticate textures di Universalists. I punti di contatto, in verità, sono molti ed evidentissimi: su tutti, il riemergere di una spiccata attitudine punk, sia nella gestione dei formati temporali (come per il precedente Director, la durata media dei brani sta fra i centoventi e i centottanta secondi) sia, soprattutto, nellapproccio inventivo alla composizione. Lapice della ricerca intellettuale viene raggiunto nella stupefacente Chronology, un assordante klez-metal che si inabissa sulle note della tremolante cantilena dellinformatrice maiorchina Catalina Mateu (già recuperata, ad inizio tracklist, per il toccante liricismo arabeggiante dellintermezzo Post-World) per poi riemergere in superficie, con violenza ferina, in una virulenta esplosione noise che trascina con sé field recordings darea piemontese. Anche nei momenti più melodici e lineari, tuttavia, la penna di Gat si rivela perfettamente allaltezza: affascinante la polifonica rumba surf intonata dalla dodici corde in Sightseer (eccellente la trattenuta tensione jazzistica del solito Lazer), paradisiache le armonie lasciate intravedere dal cavaquinho di The Imaginary (con scissione conclusiva, in libero galoppo, della sezione ritmica) e non meno che devastante limpatto frontale della rabbiosa Cockfight (gli Slayer che rileggono la discografia dei Del-Tones).
Altro se non si vuole scadere nella didascalia ridondante non si può e non si deve dire. Universalists è unopera così unica e personale che ogni ascolto fa quasi storia a sé: ed è precisamente nellinesauribile ricchezza di contenuto che si dovrebbe riassumere il senso di ogni disco world che si rispetti. Imprescindibile.
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