Bjork
Vulnicura
Anni fa, un (da allora un po' meno) amico, mi regalò un cd che lui definì "un capolavoro". Era il mio compleanno. Non aveva titolo nè riportava il nome dell'autore. Provai ad ascoltarlo ma non riuscii a capirci nulla: c'erano dei suoni strani, degli scricchiolii, qualche sibilo. Il giorno dopo chiesi spiegazioni a chi me lo aveva regalato. Disse: "è l'opera di uno sperimentatore tedesco che ha messo dei microfoni nelle carcasse di alcuni animali in decomposizione e poi ha condensato in 120 minuti il risultato di un mese di registrazioni". Ora, dico io, a parte la mancanza di sensibilità (sono nato il giorno dei morti e mi regali un disco suonato da cadaveri), ma come si fa ad ascoltare una stronzata del genere?
Ecco, ad ogni uscita discografica (recente) di Bjork partono gli attacchi di panico. Cosa avrà inventato, questa volta? Già, perché la dea dei ghiacci, dopo aver di fatto creato un genere con Post e con il pluriacclamato Homogenic, ha affrontato il nuovo millennio con una insana (sebbene particolarmente creativa) voglia di sperimentare. E se lelettronica cerebrale di Vespertine riuscì comunque a soddisfare i suoi estimatori e a tenere la distanza dai suoi sempre più numerosi tentativi di imitazione, già con Medulla e le sue montagne russe vocali qualcuno contrasse i muscoli facciali. Chi scrive apprezzò molto quella voglia di trovare nuove strade al servizio di una voce quasi inutile ricordarlo veramente straordinaria per tecnica ed espressività. Ma con i successivi Volta e soprattutto Biophilia, anche il sottoscritto mollò il colpo. Il concepito aveva superato il contenuto, come se il progetto-Bjork stesse tentando di oltrepassare lambito strettamente musicale per diventare una qualche forma moderna di artista totale (visuale e tecnologica). E chi, come me, si fermò alla musica, non riuscì ad apprezzare il concept virtuale di Biophilia. Che non era proprio come registrare cadaveri in decomposizione, ma il senso di disagio, o forse di soggezione, era lo stesso.
In questo senso, Vulnicura chiude un ciclo (che potremmo chiamare avere a che fare con Lars Von Trier può creare qualche problema) e ne apre un altro. Il nuovo disco di Bjork è un disco intimo, personale, che nasce dalla necessità di esprimersi (vedere il cuore aperto in copertina) e di esorcizzare il dolore procurato dalla fine della relazione con lartista Matthew Barney. E si sa, quando dobbiamo esprimere concetti così privati, usiamo il linguaggio che meglio conosciamo. Per questo motivo Vulnicura è in gran parte composto dalla sua autrice, che si presenta nella sua essenzialità (vocale e musicale) fin dall iniziale Stonemilker, costruita su una ritmica quasi assente e un testo nel quale chiede rispetto, ripetendo la parola emotional che ben ricordiamo nel testo di Joga (Show me emotional respect, oh respect, oh respect / And I have emotional needs, oh needs ). In maniera analoga, il resto del disco segue un percorso compatto (ma anche privo di sussulti) fatto di vocalità classica e sofisticata (Lionsong) unita alle produzioni elettroniche altrettanto sofisticate del nuovo golden boy elettronico Arca. E qui apriamo una parentesi: non siamo nessuno per dire che Kanye West abbia preso un abbaglio (anzi, il lavoro fatto sugli EP di FKA Twigs è eccellente), ma tra i solchi di Vulnicura, benché appaia in sette brani su nove, il produttore venezuelano non lascia il segno. Una bella entrata a gamba tesa e in 4/4 a spezzare lagonia post-amorosa di Black Lake, ovvero dieci minuti (forse il brano più lungo mai inciso dall islandese, escludendo i remix) di vero dolore, interpretato da una Bjork distrutta (My heart is enormous, lake black with potion / I am blind, drownin' in this ocean), e davvero poco altro. O meglio, niente che i Matmos non possano imbastire in una mezza giornata di lavoro.
Il corpo centrale del disco è composto dalle canzoni scritte dopo la rottura con Barney, e rappresentano la cura delle ferite (vulni). La già citata Black Lake è seguita da Family, altri otto minuti questa volta molto dinamici, vicini a certi esperimenti di classica contemporanea, durante i quali la cantante islandese esprime ancora il suo dolore (Is there a place / Where I can pay respects / For the death of my family?) e da Notget, forse il brano più interessante dal punto di vista della linea vocale (che ricorda davvero il passato dellartista) supportata da un buon arrangiamento darchi e da una base ritmica più elaborata (e anche qui: If I regret us / Im denying my soul to grow / dont remove my pain it is my chance to heal). Verso la fine, si avverte qualche momento di stanca (limpasto un po teatrale di Mouth Mantra), un semplice arpeggio di viola come base per lormai classico duetto (decisamente ben riuscito) con Antony Hegarty (Atom Hearts) e laltrettanto classica chiusura col botto (Quicksand, in collaborazione con il misconosciuto produttore irlandese Spaces).
Mancano ad essere sinceri i brani dimpatto, le linee vocali e le aperture pop che avevano dato gloria ai dischi degli anni 90. Si ha la sensazione che a questo ritorno si potesse chiedere qualcosa in più. Ma Bjork ormai ha ben poco da dimostrare, e ha imparato da tempo che questo è il problema dei migliori. Un problema che noi, probabilmente, nemmeno comprendiamo.
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