Eyvind Kang
Alastor: Book Of Angels, Vol. 21
ed è proprio quando si pensa di non potersi e sapersi più stupire che si cade in pieno nella trappola, nellinsidia. La tagliola è bene avvolta dalla bandana scura che cinge la testa di Eyvind Kang, per formazione violista, per fattezze coreano, per vocazione cosmopolita: il classico nome sconosciuto a prima lettura ma che, in realtà, si rivela essere una delle anime più feconde e produttive del magmatico universo Tzadik (vi sfido, daltronde, a tenere docchio tutto, a sapere tutto di tutti). Dal 1996 anno del suo debutto con 7 NADEs in avanti, Kang ha rilasciato per la sola etichetta newyorchese almeno altre cinque uscite, senza contare le dozzine di apparizioni attive in dischi ad altro nome ed altri lavori concentrati su diverse label, come lIpecac di Mike Patton e lIdeologic Organ. Violista, dicevamo, ma alquanto nominalmente: dovessimo tenere conto di ogni singolo strumento suonato verrebbe fuori, probabilmente, una recensione a parte una caratteristica che lo avvicina sinistramente sia allaltro prodigio di chioccia Zorn, il geniale Koby Israelite, che al talento tormentato del misterioso Mike Pathos.
Per il ventunesimo capitolo dello sconfinato canzoniere Book Of Angels, consacrato ad Alastor (il vendicatore, la cui tradizione demonologica risale ai primordi classici della ýbris omerica), Kang allestisce unorchestra non convenzionale di venti elementi, tra i quali spiccano Shahzad Ismaily al basso e il celebre tecnico del suono Randall Dunn al moog e come voce corale: il gran direttore si presta personalmente stando a quanto dichiarato a basso, vari tipi di chitarra, viola, violino, Korg, moog, sitar, piano, percussioni e oud, oltre a strumentazione decisamente più specifica, come lo janggu (il classico tamburo coreano a clessidra), il kacapi indonesiano, il kamancheh (strumento a corda iraniano e progenitore del violino europeo, da suonarsi però come un violoncello) ed il setar, piccolo liuto di provenienza mediorientale. Se non avete la benché minima idea di cosa significhi tutto questo, siete sulla strada giusta. Tra Jetrel e Variel rispettivamente traccia numero quattro e cinque del disco si consuma il senso di un lavoro che sfonda lo stesso muro delleclettismo, per parlare con un linguaggio proprio, non incasellabile: la prima è uno struggente lamento funebre a tinte klezmer per complesso di archi, la seconda una scintillante operetta da Broadway cabalistica (con luminosi stacchi per sax, trombe e flauti) impreziosita da una bella progressione pianistica à la Jamie Saft.
Secret Chiefs 3 e il summenzionato Israelite, allora, ma non solo, perché lidea di giustapposizione crossover non è la medesima che porta Kang a strabilianti e spericolate fusioni intergenere. Più di un episodio si segnala per la spiccata originalità, come il frammento lirico di Loquel (violini e disturbanti linee elettroniche ad accompagnare il gorgheggiare di Maya Dunietz e Jessika Kenney), la lunga e drammatica parata biblica di Sakriel e i tremori gamelan di Hakha. Limbastardimento nel segno dellOriente vicino ed estremo arriva al collasso in Samchia, stupenda e delicata nipponizzazione di una raffinata tessitura jazz e sicuro punto di non ritorno con cui i futuri partecipanti al progetto Book Of Angels dovranno confrontarsi. Le potenzialità dellensemble di Kang sono tali che, al confronto, la vibrante ma canonica esecuzione di Barael e la felpata risemantizzazione della masadiana Uriron sembrano sfigurare. Leccezionalità di Alastor è ancor più evidente se lo si pensa inserito nel suo contesto, come parte del fittizio trittico composto dal ventesimo volume, Tap (il demone dellamore, a capo di venticinque legioni, musicato dallillustre ma poco brillante prestazione di Pat Metheny) e dal recente, ventiduesimo, Adramelech (il cancelliere degli Inferi coinvolto nelle risibili danze degli Zion 80, nuova incarnazione degli ex Rashanim Jon Madof e Shanir Ezra Blumenkranz).
Proprio bello, non saprei. Ma interessante, questo sì, eccome.
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