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7/10

Herd of Instinct

Herd of Instinct

Un solenne incipit, Transformation, evocativo delle dense liturgie dei primi Dead Can Dance (quelli delle marce funeree e dei sintetizzatori glaciali), rivela il sentiero verso il magma sonoro degli statunitensi Herd of Instinct. Nome impegnativo che si richiama a quel segreto capolavoro seguito alla dissoluzione dei Talk Talk e uscito sotto la ragione sociale O.Rang (Lee Harris e Paul Webb). Ma nell'album che stiamo descrivendo solo in parte c'entrano quei mantra a cavallo fra sperimentazione etno-elettronica e minimalismo psichedelico. Qui la pulsazione auditivamente più rilevante è quella ascrivibile alle dinamiche Crimsoniane di "Larks Tongue In Aspic" e di un certo progressive sconfinato in territorio Rock In Opposition (Henry Cow). Il risultato è a tratti sorprendente, fra innesti dissonanti, avventurose partiture ritmiche, intricate trame chitarristiche, distese etno-ambientali, a susseguirsi senza soluzione di continuità.

Due composizioni diversissime come Room Without Shadows e Road To Asheville, poste in rapida sequenza, hanno lo scopo di rivelare la vasta portata delle influenze alle quali il trio costituito dal Warr-guitarist Mark Cook, dal batterista Jason Spradlin e dall'altro chitarrista Mike Davison si ispira. Blood Sky, l'unica canzone propriamente tale, soavemente interpretata dalla singer Kris Swenson, sembra incunearsi su una melodia tortoisiana, il cui delicato moto ondoso è increspato da un vento che pare provenire dall'incarnazione cremisi post-2000. La musica degli Herd of Instinct si pone e si impone in parte con una sorta di intimo magnetismo e in parte con una indole refrattaria ad agevolare un rapporto semplicistico con l'ascoltatore. Ed era proprio quanto accadeva con i King Crimson in grado di avere nel proprio repertorio tanto delicatissime ballad sui generis come The Night Watch o Book Of Saturday, quanto spigolose prodezze supersoniche come Fracture, limitandosi ad un solo esempio. Ecco, a questa specie di incantevole dialettica inneggiano gli Herd of Instinct.

La gamma emozionale non è tuttavia così strettamente derivativa dalle suggestioni di Fripp & sodali, attraversando territori avant, radure elettroniche, massicci prog, spazi siderali psichedelici e panorami urbani math-rock. Alcuni rimandi all'esperienza dei Gordian Knot di Sean Malone. Avendo nel sangue un DNA compatibile con queste ardite geometrie sonore, il passo che porta all'innamoramento con un album siffatto potrebbe essere breve oltre ogni misura: qui lo spazio che separa la causa dall'effetto è pregno di significati sottili, sospesi fra sacralizzazione e dissacrazione. Poco vuoto e molto pieno, ma non per horror vacui. E il tecnicismo? Certamente taluni excursus sonori richiedono una preparazione strumentale che si riveste anche di virtuosismo: rari sono tuttavia i momenti in cui la musica si ripiega su se stessa, perdendo il focus della funzionalità estetica. Anamnesis è uno di questi "rischiosi" frangenti nei quali sarebbe bastato un eccesso di troppo per destabilizzare l'equilibrio. Molti gli ospiti a dare man forte al trio, più per amicizia che per soldi: Jerry Marotta (storico drummer a servizio di Peter Gabriel), Pat Mastellotto (dal 1994 dietro le pelli con i King Crimson e ancora prima nell'esperienza Sylvian/Fripp), Gayle Ellett (Djam Karet), Gavin Harrison (Porcupine Tree, Jakszyk, Fripp, Collins), Markus Reuter (Centrozoon). Per essere un album di debutto l'omonimo degli Herd of Instinct parla con voce assai autorevole e dichiara la sua appartenenza ad un sostrato multi-culturale fuori dal comune. The Face of Another, messà lì a chiudere, ha il valore di summa e vertice creativo.

Non sarà etico liquidare questo lavoro con un ascolto superficiale. Non da parte di chi dalla musica cerca ben altro che l’attenersi ad un trend o ad un unanime canone e consenso.

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