Bancale
Frontiera
È una scritta di sangue caldo su una lapide questo Frontiera, esordio sulla lunga distanza dei bergamaschi Bancale. Una continuità distorta tra ciò che muore e ciò che vivrà ineluttabilmente grazie alla morte stessa, unica sovrana di un regno chiamato rinascita. C’è del feroce ottimismo, c’è poesia sudata e vivida, c’è terra e pietra, ma anche acqua e respiro.
Frontiera amplia e potenzia il discorso intrapreso nel 2009 con Bancale ep dai tre, che dilatano le proprie ambizioni, sia musicali che letterarie, e affidano parte del lavoro di produzione e mixaggio alla mente sapiente di Xabier Iriondo, alle prese pure con chitarre e elettronica in un paio di pezzi. L’opera in dieci fasi che ne viene fuori è sceneggiata dai testi raggelanti e dalla voce declamatoria, sofferente, ma mai arresa di Luca Vittorio Barachetti, dipinta dalle chitarre di Alessandro Adelio Rossi, e colorata (di scuro) dalla batteria e i rumorismi assortiti di Fabrizio Colombi. Un immaginifico viaggio concettuale che, poggiando su un fulcro di sporchissimo blues, esplode in più direzioni e si materializza in lenti post-rock, noise malati, sincronie folk, addentrandosi in territori che sfiorano tanto l’industrial quanto il cantautorato classico, in un’amalgama sonora incredibilmente coesa, profonda, granitica.
In più di un frangente è tangibile la lezione dei mai troppo lodati Six Minute War Madness (progetto dello stesso Iriondo consumatosi in tre atti più di dieci anni fa) e l’attitudine minimalista dei Bachi da Pietra. A differenza di questi ultimi, nei Bancale non c’è negazione o rifiuto, ma arricchimento, realtà tangibile, materia da disfare, plasmare, ricomporre. L’iniziale Randagio, trascinata tra le lamiere, è straziante ma non si nega la speranza. Lago del tempo, silenziosa e marziale, accetta l’apocalisse come contrappasso della natura sull’individuo. Altrettanto marziale, declamatoria, nitida, Cavalli prende a prestito sul finale la voce recitante di Pasolini, la breve Catrame cita il visionario scrittore Giuseppe Genna, e c’è addirittura Pavese nei tremolii sussurrati di Un paese.
Tra battiti industriali alla Einstürzende Neubauten (Calolzio), silenzi alternati a strazi vicini al grind (il delirio della title-track, le saturazioni di Corpo (giorno che scorno)), brillano di luce accecante Megattera, ipnotico cortocircuito sensoriale, e la finale, suprema Suonatore Cielo, l’urlo silenzioso di un Fossati frastornato.
“è il mio corpo una chiesa che guardo da fuori e guardandola immagino travi e muri portanti cadere sul peso svuotante di tarme e di ragni…” (Corpo(giorno che scorno))
Un ascolto per pochi, un disco poco più che enorme.
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