King Of The Opera
Nowhere Blues
Che tipo di ritorno ci si poteva aspettare da un cantautore che dodici anni fa esordiva in singolo con un disco-ufo ancora oggi rimasto privo di paragoni credibili (Beach Party), gli faceva seguire a due anni di distanza uno dei canzonieri bluesedelici migliori della sua generazione (The Halfduck Mystery) e decideva infine di celebrare il funerale dellalter ego Samuel Katarro per rinascere in un trio elettrico a tutto tondo (Nothing Outstanding)? Risposta esatta: un comeback del tutto sui generis. Il primo full length di inediti per lAlberto Mariotti versione King Of The Opera dai tempi dallEP Driftwood (2014) è persino sorprendente, la riscoperta delle radici che non ti aspetteresti mai: una rilettura critica di Beach Party per mano di un bluesman postmoderno che, allo straziato e allucinato minimalismo delloriginale, contrappone unancora più ardita destrutturazione della forma canzone, una riscrittura dei non luoghi di allora in direzione di una mappatura oroidrografica del tutto priva di dettagli concreti cui aggrapparsi un po come il Frank Westerman di Ingegneri di anime che, sulla scorta della descrizione irreale di Konstantin Paustovskij, si incammina alla ricerca del golfo di Kara-Bogaz, golfo che forse non esiste e chissà se sia davvero mai esistito.
I lunghi, talvolta lunghissimi pezzi di Nowhere Blues (titolo azzeccatissimo), scritto e registrato nella famigerata cameretta, suscitano precisamente questa tipologia di straniamento: cosa stiamo ascoltando, come lo stiamo ascoltando, perché? I fantasmi gotici di una title track che sembra partorita dalle viscere dellAmerica irreale raccontata da Giorgio Vasta richiamano immediatamente le visioni no-blues-wave di Beach Party, ma da una prospettiva angolare, vagamente debitrice dellultimo Paolo Spaccamonti, che ne distorce ulteriormente i contorni, ne sfuma lessenza. La sonnolenta Im In Love, uno slacker novantiano killer travestito con un sitar samplizzato e agghindato con delle strimpellate di banjo, molla subitaneamente il flower power per involarsi su un ritornello electro-pop che, in coda, si dissolve in una nuvola di fumo industriale, con effetto sinceramente inquietante: e così anche Never Seen An Angel, un bel lento bristoliano cullato dal Rhodes di Fabrizio Marchetti che, con un twist subitaneo, si riscopre modernissima hit synth-funk.
Dalloltretomba degli ovattati arpeggi wave di Monsters In The Heart, una grigiastra geremiade che sinistra rimbalza sui gelidi pattern di un drum sequencer (From Texarkana To Texarkana con cattedrali industriali in rovina al posto della scalcinate assi di un saloon abbandonato), Nowhere Blues si propone allora come odeporica psicopompa lo si definirebbe quasi stream of consciousness, non fosse questultima definizione abusatissima e perciò odiosa , immersione negli abissi dellignoto che nei dieci minuti abbondanti di The Final Scene raggiunge il suo apice: un quadro boschiano a tinte wonky, unodissea minimal con tanto di congas (le suona Bruno Germano dei Settlefish) in cui confluiscono naturalmente gli arpeggi liquidi e alienati dei primi Radiohead. Il passo successivo è, nuovamente, quello dellapertura verso lesterno, del ritorno alla dimensione collettiva: i fiorentini ⁄Handlogic sono chiamati a costruire un bellarrangiamento folktronico attorno al conclusivo soul-brit di Places, sipario persino apotropaico dati i tempi (Rain is not falling too hard today).
Prima dellabbattersi della pandemia, i piani di Mariotti erano quelli di portare dal vivo i brani di Nowhere Blues con una nuovissima formazione, comprensiva di Andrea Carboni (tastiere, programmazione, voce) ed Elia Ciuffini (batteria, percussioni). Una sola lincognita: il mondo che si troverà a cantare in un prossimo futuro King Of The Opera sarà lo stesso che ha creato le condizioni per la nascita di questi pezzi?
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