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R Recensione

7,5/10

Otis Taylor

Fantasizing About Being Black

La migliore definizione della sua musica l’ha creata lui stesso, e ci ha pure intitolato l’etichetta discografica: trance blues. Otis Taylor, classe 1948, da Chicago è un navigato bluesman in attività dalla fine degli anni sessanta convertito alle dodici battute da un destino di jazzista dopo l’ascolto di Missisipi John Hurt a Denver, dove la sua famiglia si era trasferita in seguito all’omicidio di uno zio ed alle persecuzioni razziali cui era sottoposta. La causa del popolo nero è, da allora, diventata uno dei motivi dominanti dell’arte di Taylor, rappresentata, ad oggi, in quindici album che gli hanno procurato svariati riconoscimenti ed una notorietà  estesa a collaborazioni con il mondo del cinema e della televisione. Omicidi, persecuzioni, ingiustizie e tirannia dominano i suoi testi, anche se lui non si definisce una persona particolarmente infelice: “in fondo mi piacerebbe fare abbastanza soldi per comprarmi una Porsche”, riassume così la sua attitudine.

Fantasizing About Being Black”, il nuovo album inciso con la sua band (Anne Harris, Larry Thompson, Todd Edmunds) e gli ospiti Jerry Douglas, Brandon Niderauer e Ron Miles, cornettista presente in diversi lavori di Bill Frisell, è un disco che non vi darà scampo. Dopo un ascolto, anche distratto, inizierà ad insinuarsi nella vostra testa e sarete costretti a rimetterlo su da capo. La ricetta alla base del lavoro è semplice: ridurre tutto all’osso, incentrare i pezzi su minimali riffs ripetuti ossessivamente per dare risalto al vocione baritonale, rauco e velato di Otis. Il risultato è una sorta di mix incandescente fra John Lee Hooker ed i Suicide. Il trance blues pervade i dieci pezzi del disco, articolato ora in forma acustica (“Twelve String Mile”, con l’ausilio della tromba di Miles, “D To E Blues” supportata dal violino, la ballad “Just Want To Live With You Baby”), ora sostenuto dal riff del banjo di cui Otis è maestro (“Banjo Bam Bam”), oppure immerso in bollente bagno elettrico hendrixiano (“Hand On Your Stomach”) o imbullonato fra i binari del blues elettrico di Chicago (“Tripping On This”). Il funk di “Jump Jelly Belly”, con l’elastico groove costruito fra chitarra elettrica e cornetta, è uno degli episodi più solari ed accattivanti, mentre i vertici del minimalismo si toccano nella metronomica elettricità di “Jump Out Of Line” ed in “Roll Down The Hill”, interamente sostenuta da un singolo accordo ripetuto in modo ossessivo ed incessante.

Alla fine il country blues di “Jump To Mexico” ci riporta alla luce con una boccata d’aria salutare. Ma se siete arrivati qui, la trance vi avrà già catturato, e non potrete che ricominciare il giro da capo.

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