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R Recensione

7,5/10

Stefano Pilia

Blind Sun – New Century Christology

Si accomodi, pronto a mutare la propria opinione, chi più non sopporta il risuonare delle sei corde. In un arco di tempo che abbraccia, sommariamente, sei mesi, i tre migliori chitarristi italiani su piazza (due dei quali, non a caso, incorporati nella stessa formazione) hanno avuto modo di confrontarsi con le rispettive uscite soliste. “Il Cielo Si Sta Oscurando”, terzo squillo di Egle Sommacal (Unhip Records, 21 novembre 2014), ha rappresentato un ritorno all’emozionante, tumultuosa calligrafia acustica dell’esordio “Legno”, arricchita tuttavia da un acquisito amore per lo stream of consciousness di certo fingerpicking “classico”. “Rumors”, anch’esso third act, ma di Paolo Spaccamonti (Santeria / Escape From Today, 20 aprile 2015), è stato ovunque magnificato come la creatura pienamente matura di un autore – e strumentista – completo (nel tocco, nell’esecuzione, nella scrittura, nella strategia complessiva). “Blind Sun – New Century Christology”, imprecisato autografo – sesto? ottavo? – di Stefano Pilia (Tannen Records / Sound Of Cobra, 30 aprile 2015), assorbe la forma apparentemente tradizionale del primo e l’esaltante eterogeneità del secondo. In altre parole, oltre l’orbita di complessi mitologemi iniziatico-cristologici (che sintetizzano, come da tradizione sincretica contemporanea, il topos letterario della “cecità rivelatrice”, la metafora socio-politica e l’ambiguità semiotica di un simbolo cosmologico attrattivo quale il sole) gravita un disco di ordito blues e di trama avant, una quasi-contraddizione in termini sciolta all’atto della prova empirica.

Gli sposi (o i fratelli? Parlino gli etnologi) della volta celeste, nella loro solitudine di numeri primi, si guardano con occhi vuoti, lattiginosi. Contemplante è la luna, di una contemplazione raminga ed ascetica: sottili arpeggi galleggianti, di un’intensità armonica sublime, momentanea, si disperdono nel nulla, come in una dream-gaze senza alcun contorno (“Blind Moon”). Il sole si risveglia tra sbuffi e ansimi, in un ardente striarsi di drone e riverberi che procede ad ondate, irregolarmente (“Blind Sun”): un’anticipazione dei dissesti rumoristici di “Getsemanhi Crickets Night Air”, una scheletrica ascensione post-blues che si rovescia in una siderurgia catacombale, l’orto degli ulivi arroventato dal vento desertico e reso spettrale dalla luce lunare. Tutto attorno, il nulla: fate morgane, stridori di frontiera, pentatoniche diroccate e in disfacimento (“The Cross Peregrin Falcon N.C.”). Il lamento del bottleneck è quello dell’agonizzante sulla croce, che spira nel silenzio generale, dopo grande patire: la scena è ripresa con lo sgranato, corposo bianco e nero del beffardo, allucinato neorealismo di Ciprì e Maresco (“Golgotha Chamaleon”). L’isolazionismo è, infine, portato alle estreme conseguenze in una “Children Ghost” in cui ogni suono, ogni sussulto si astrae dal contesto in cui viene calato, appartenendo solo a sé stesso e divenendo nulla più che segmento modale.

A tale pregnanza concettuale – chi non è avvezzo a linguaggi seriali, avvisiamo, avrà di che soffrire – corrispondono, nella prima parte del lavoro, eguale padronanza della tradizione ed eleganza formale. Bene gettare ponti tra un lato e l’altro, tracciare paralleli dove possibile. “Stand Behind The Man Behind The Wire” (qui in una nuova versione, impreziosita dal violino di Rodrigo D’Erasmo) è lo stesso struggente spaccato di folk silvano che avevamo avuto modo di ascoltare in “Frammenti – Stand Behind The Man Behind The Wire”, split vinilico del 2013 con Paolo Spaccamonti (toh!). Gli involucri distonici di “Children Ghost” si ricompongono in fila in una squillante versione di “What Are They Doing In Heaven Today?”, traditional gospel di Washington Phillips. È una spiritualità estetica ancor prima che estatica, catartica ma tangibile, corporea. Così le slide ghignanti di “Golgotha Chamaleon” cantano, in festa, tirate a lucido, nella riesumazione tutta cuore e diteggiatura di “Dark Was The Night, Cold Was The Ground” (l’originale è di Blind Willie Johnson, ed ecco servita la tautologia): l’andamento a singhiozzo di “Ada” – unire l’arcano al postmoderno: tutt’altra storia, rispetto alle afasie meccaniche di “Little Ada” – si abbarbica attorno alla profonda emozionalità cinematica di “Butterfly Aeon”, in un mirabile continuum di forma e sostanza.

A lasciare sgomenti non è l’apparente, insanabile contrasto tra le due facciate, quanto la constatazione, inoppugnabile, che una non potrebbe esistere senza l’altra, che una acquista di senso grazie all’altra. Aver coscientemente dissipato la totalità in un insieme di tessere il cui ricongiungimento asimmetrico, tuttavia, porta al ricostruirsi del quadro originario: i meriti di Stefano Pilia sono sotto le orecchie di tutti. Mezzo voto sopra il disco del collega Sommacal, alla pari con Spaccamonti. “Blind Sun – New Century Christology” è un densissimo labirinto di segni e significati in cui perdersi è obbligo, ancor prima che garanzia.

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fgodzilla alle 17:12 del 30 novembre 2015 ha scritto:

sommo Biasius non centra un cazzo con la tua splendida rece

ma questo live dei tool ad Hallowen con No quarter cosa mi dici........

Marco_Biasio, autore, alle 20:24 del 30 novembre 2015 ha scritto:

Ti rispondo quando scriverò due righe su Money Shot dei Puscifer.