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R Recensione

7/10

Raime

Quarter Turns Over a Living Line

Dalla Blackest Ever Black è naturale aspettarsi roba scura, e i Raime, nel loro debutto sulla lunga distanza, non disattendono le aspettative. Come già per altri nomi nel roster dell’etichetta inglese (dico Tropics of Cancer, ad esempio), il duo di base londinese formato da Joe Andrews e Tom Halstead propone una specie di catatonico ibrido tra sperimentalismo industrial/post-punk (Ike Yard, Cabaret Voltaire) e dark ambient, aggiungendoci una dose di sottocultura jungle tutta britannica, che si infila in modo serpentino negli asfalti peciosi delle periferie anni ’90 (“The Last Foundry”).

L’esito è un disco di disturbante apocalissi, mai però violenta. Si rimane sempre sull’orlo del disastro, respirandolo a pieni polmoni, ma senza esserne travolti, come per una specie di tormento di Tantalo in negativo. Vicini alla fine certa, ma mai davvero lì, con tutto il (maledetto) tempo di cerebralizzare la catastrofe. Le ritmiche minimali vengono incollate da un magma di bassi, mentre i synth partono per scurissimi droni sopra cui si incidono graffi, corde scartavetrate di violino, disturbi noise, rintocchi cimiteriali, per atmosfere gotiche che a me sembrano comunque molto urbane. Di un’urbanità flagellata, naturalmente, come in certe copertine dei The Future Sound of London: non a caso “Exist in the Repeat of Practice” suona come un remake del loro capolavoro “My Kingdom”, anno ’96, e non a caso altri episodi del disco (“Soil and Colts”, per dire) si tirano dietro come un fardello mortuario l’asfissiante vento nineties tra trip-hop e successive folate dubstep.

Apici, però, sono i passaggi in cui il violino e le macerie di chitarra mimano con un’evidenza davvero dolorosa la residualità umana ormai devastata che si respira in tutto il disco. I paesaggi desolati diventano incubo (“Passed Over Trail”, con inserti hauntologici e quasi thriller) o, meglio ancora, distillato di tristezza, dove queste end-time ballads sfociano verso territori propriamente post rock. E così il crescendo cimiteriale di “Your Cast Wil Tire” potrebbero suonarlo, oggi, solo i nostri Father Murphy, così come il requiem di “The Dimming of Road and Rights”, che pure rimanda ad altra recente neo-psichedelia noir dalla campagna britannica (Forest Swords).

Pregio non da poco, poi, che il disco non indulga nell’autoaffossamento compiaciuto, come troppo ambient. I tempi sono, in tutti i sensi, quelli giusti. Per finire l’anno in nero.

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Voto degli utenti: 7,2/10 in media su 5 voti.
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hiperwlt 7,5/10

C Commenti

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nebraska82 (ha votato 5,5 questo disco) alle 22:05 del 29 novembre 2012 ha scritto:

suoni troppo cupi e ansiogeni per i miei gusti.

gull alle 17:02 del 5 dicembre 2012 ha scritto:

Suoni cupi ed ansiogeni: ottimi per i miei gusti!

hiperwlt (ha votato 7,5 questo disco) alle 23:33 del 5 dicembre 2012 ha scritto:

sorpreso: estremamente visivo, appagante! grande Targ

target, autore, alle 10:59 del 7 settembre 2013 ha scritto:

Se passano dalle vostre parti, non perdeteveli. Concerto splendido ieri: nemmeno tre quarti d'ora, ma di suoni mai sentiti. Ne vale la (letterale) pena.