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R Recensione

8/10

Piano Magic

Heart Machinery

I Piano Magic hanno rappresentato una delle storie più significative della scena alternative-wave inglese degli ultimi vent’anni: una storia iniziata nel 1996 e figlia di quella gloriosa rivoluzione post-punk che in U.K. ha avuto esiti cicatriziali complessi e mai del tutto desiderosi di guarire dalla dolorosa lesione sonora di cui sono conseguenza.

Eppure Glen Johnson – una antistar refrattaria ad ogni atteggiamento peculiarmente “rock” – ha caratterizzato le vicende della sua band aspirando ad una volontà di alternanza sia di stili che di umori: i riferimenti devozionali sono, più meno, rinvenibili nella cartografia tracciata da Joy Division, Durutti Column, Dead Can Dance, Felt, Cocteau Twins, New Order. La fascinazione per un certo minimalismo folk e per una inquieta elettronica sottocutanea ha illuminato di una luce sinistra e mesmerica le più belle pagine del loro repertorio. Un repertorio denso di episodi innervati di note sofferte, calati in atmosfere notturne o comunque crepuscolari, ambientati in location autunnali se non profondamente invernali, ispirati da racconti di dolente introspezione e spesso sconfinanti nella poesia più consapevole della problematica natura dell’esistenza umana. Ma fra la propensione all'uso di un linguaggio in bilico fra (synth-)pop e new-wave (Incurable, Vacancies, Dark Horses) e il ricorso alla contemplazione ambient (Blood and Snow, Giant Mirror To Light Up The Village), fra l’amore per fragili tessiture acustiche o quasi (Lalo, Kind Theme, Paulette) e la destrutturazione minimal-elettronica (Echoes On Ice, I Came To Your Party Dressed As A Shadow, This Heart Machinery), fra le incursioni in territori strumentali dal sapore profondamente Eighties (A Fist In The Air, A Tear In The Eye, I Have Moved Into The Shadow) e l’inaugurazione di un cantautorato antico e solenne (Dark Ages), prorompono – senza troppo preavviso – watt recalcitranti e scariche elettriche dal piglio selvaggio che virano certe composizioni verso topografie “post-rock”, come nella meraviglia spiraleggiante di Speed The Road, Rush The Lights, nella tensione metafisica di Luxembourg Gardens o nel conturbante crescendo di Saint Marie (momenti salienti di quel capolavoro del 2003 intitolato “The Troubled Sleep Of Piano Magic”).

Da come li ho sempre percepiti, seguendone il percorso album dopo album, EP dopo EP, concerto dopo concerto, i Piano Magic sono tante band dentro una o forse semplicemente una sola entità infestata da tante anime che coesistono, mettendo apparentemente a repentaglio l’identità e l’unicità di intenti della musica. Ma qui sta la vera magia perseguita e attuata attraverso ricorrenti cambi di etichetta e di line-up: Glen Johnson & sodali hanno sviluppato un concetto tutto loro di integrità artistica, una coerenza compositiva che si esprime secondo modalità anche antitetiche (basterebbe constatare la sola l’alternanza fra rumore e silenzio che ricorre nel loro songbook), ma senza mai perdere di vista una raffinatezza che va ben oltre il piano formale.

La formazione inglese non ha dei “brani-vessillo”, dei totem musicali e neppure un portamento propriamente anthemico, a dire il vero. E’ semmai nel suo armonioso assortimento che si cela l’ombroso colore che costituisce l’elemento cromatico di quella bandiera sonora che custodiscono ben lontano da aste e da clamori: è proprio tale armonioso assortimento a far assomigliare questa “raccolta” più ad un vero doppio – splendido – album in studio che non ad una antologia di chincaglierie perse per strada.

 

Tuttavia ha un po’ il sapore dell’epitaffio questo compendio di perle tutt’altro che secondarie prevalentemente estratte dai tanti Extended Play che dati alle stampe fra il 2001 e il 2008 (vale la pena ricordarne alcuni titoli: “I Came To Your Party Dressed As A Shadow”, “Saint Marie”, “Open Cast Heart”, “Incurable”, “Dark Horses”, “Never It Will Be The Same Again”, contenente una suite ambient-contemporanea di 30 minuti e in questa occasione disponibile come bonus disc per coloro che acquisteranno la retrospettiva sul sito della Second Language). Glen Johnson da qualche anno ha preso le distanze da quell’alternative rock volenteroso di apparire indi(e)pendente, ma allo stesso tempo desideroso di attrarre l’attenzione dei media di tendenza, giungendo ad allontanarsi  sempre più dai palcoscenici, se non per rare occasioni speciali e a fondare una label che promuove artisti prevalentemente attinenti al mondo folk dell’Inghilterra rurale, legati a doppio filo alle sue simbologie ancestrali, alla sua natura primordiale  e – in generale – all’amore per una tradizione che prescinde le coordinate geografiche dell’era presente. Tanto che quel “Life Has Not Finished With Me Yet” pubblicato dai Piano Magic nel 2012 è parso il risultato finale di questa depurazione da sovrastrutture rock: una liberazione che ha restituito un ensemble (nel quale stabile è divenuta la presenza di Angèle David-Guillou, Franck Alba, Jerome Tcherneyan, Alaistair Steer), sempre più sensibile al richiamo di un intimismo neo-folk contrappuntato da archi, ancora decisamente disturbato e spettrale, ma poco incline ad alzare il volume.

I Piano Magic con “Heart Machinery” ripercorrono quel tratto di strada della propria cronologia che va dal 2001 al 2008: un settennato è – in fine dei conti – cosa breve, eppure le sfaccettature che potrete rinvenire immergendovi nell’ascolto di questo florilegio sono tante e di tale fulgore da darvi l’impressione di maneggiare una preziosa pietra sonora. Una pietra che però diviene inestimabile solo in base alla propria abilità ad abituare lo sguardo a vedere nell'oscurità e alla propria capacità di avvertire i più lievi palpiti del cuore.

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