V Video

R Recensione

8/10

Piano Magic

Life Has Not Finished With Me Yet

Del cambiamento in atto, al concerto nelle Grotte di Castellana, ne avevamo colto i prodromi. Anche le rivisitazioni dei vecchi brani offerte nel 2011 in “Home Recordings” stavano indicando il percorso di allontanamento da ogni atteggiamento rock (nella fattispecie indie-rock di stampo new-wave) e da ogni inclinazione ad usare chitarre elettriche e synth come rampa di lancio delle emozioni. Come a Castellana Grotte, i Piano Magic ripartono dall’assunto che le sensazioni più autentiche si celano nelle viscere, nel profondo, nell’oscurità più che nella luce abbagliante e anziché cercare di portarle fuori dal loro habitat naturale per esporle al loro pubblico, decidono loro stessi di discendere nei meandri più reconditi per raccontarle da lì, quasi sottovoce ma sfruttando gli effetti amplificanti delle volte rocciose. Do not expect anotherOvations”, aveva detto Glen, ed in effetti “Life Has Not Finished With Me Yet” è quanto di più distante ci si poteva aspettare. Io personalmente davvero non ho nulla contro un’opera – il penultimo in studio, a questo punto – che ho amato moltissimo, pur essendo più di altre, una rievocazione, anzi una riattualizzazione storica di quel fermento dark/new-wave che nell’Inghilterra a cavallo fra Seventies (la fine di un’era, fatta di tutto e del contrario di tutto) ed Eighties (l’alba di un mondo, meno splendente di quanto volesse apparire) ha dato vita ad alcune fra le più esaltanti esperienze che la musica abbia mai vissuto. La tradizione sonora dei Piano Magic ha contemplato, in dosi sempre mutevoli, nobilissime altre tradizioni a loro precedenti: Dead Can Dance (riferimento immancabile nell’atlante identitario di Johnson & sodali: in “OvationsBrendan Perry e Peter Ulrich erano presenti in carne ed ossa), Joy Division, New Order, The Chameleons, The Cure, Cocteau Twins, Bark Psychosis, This Mortal Coil, And Also The Trees. Riguardo a qusti ultimi non si può non rilevare una stretta comunanza di intenti fra i loro due più recenti dischi “(Listen For) The Rag And Bone Man” (2007) e “Hunter Not The Hunted” (2012) e gli attuali Piano Magic.

 “Life Has Not Finished With Me Yet” non nega dunque la figliolanza da quel sostrato culturale, ma si discosta dalle sue usuali rappresentazioni, prediligendo – come appunto hanno fatto gli And Also The Trees – forme più minute, asciutte, essenziali, acustiche,  antiche. Così proprio ad inizio del lavoro troviamo subito l’episodio più pienamamente riconducibile all’esperienza tribal-wave di Brendan Perry e Lisa Gerrard: Judas. Qui tuttavia le ritmiche sono costituite da inquiete pulsazioni neurali, mentre il denso pathos di una melodia ammaliante e crepuscolare, sembra venire fuori da “Into The Labyrinth”: le corde vocali di Glen Johnson (da sempre leader del gruppo, sebbene dal portamento dimesso e dalla predisposizione introspettiva: nelle foto quello più in disparte è lui) e Josh Hight (degli Irons) si fondono nel dolente stato d’animo a cui il racconto induce. Che le percussioni siano diventate delle severe risonanze di una alchimia posta a metà strada fra suggestioni etno-folk, paesaggi elettronici e incanti minimal-industrial, diventa palese addentrandosi negli strati più interni di “Life Has Not Finished With Me Yet”.  The Slightest Of Threads ne è l’esempio: i Piano Magic si attardano ancora su quelle armonie dal fascino ombroso che paiono così connaturate alla loro cifra stilistica, ma negli ultimi minuti di vita del brano, al momento più opportuno, lo sanno “aprire” ad istanze meno contenute, regalandogli una brezza sonica che gli scompone un po’ l’ordinata capigliatura. Il pezzo è davvero sublime: l’unico del cd a concedersi un sussulto fragorosamente elettrico. In Sing Something torna protagonista la voce della tastierista Angèle David-Guillou, ma il pezzo nonostante una certa affinità pop, rimane sempre al di qua della linea di demarcazione di una più accessibile prospettiva di lettura, ornato com’è di una sobria veste dalle tinte oniriche e dai ricami ipnotici. Ad essa si coniuga alla perfezione quello smarrimento sensoriale che risponde al nome di Chemical (20mgs), brano sfasato e obliquo, che sembra riferire di un amore nato in una corsia d’ospedale, sotto l’effetto di qualche narcotico o sotto l’offuscato stato di benessere offerto da un antidolorifico. Stordente.

Lost Antiphony è uno dei tre strumentali dell’album (senza contare il brevissimo finale di Reprise): il tema scandito da flauto e clarinetto regala una poesia ancestrale dal sapore agreste che fa venire in mente alcuni passaggi di quanto realizzato dai Tyneham House nell’omonimo disco uscito sempre su Second Language. Ad esso fa da contraltare Higher Definition, che pare affrescare un panorama di uguale intensità, per impressionismo geografico, a certe vicende desert-rock, ambientandolo però diametralmente all’opposto di lande sabbiose imperlate di sudore: meadow-rock, dunque? Uno dei momenti più “pieni” del disco, in termini di strumentazione tradizionale, con il basso di Alasdair Steer in bellissima evidenza che intreccia un loop mesmerico, attorno al quale chitarra (il sempre raffinato Franck Alba), synth e batteria disegnano traiettorie inedite rispetto a quelle che siamo abituati a ricondurre ai Piano Magic. La celebrazione del mattutino (Matin), idealizza quella dimensione musicale della formazione inglese che cerca di investigare la sfera del sacro o forse solo di perseguire la sacralizzazione del quotidiano, con la viola che si libra per coniare un meta-linguaggio archetipico, che prescinde religioni e filosofie. Ma questo incanto dura il tempo di un volo di foglie in Autunno…

La title-track, apprezzata con qualche mese di anticipo a Castellana Grotte, ha un invece molto a che fare con l’identità dei Piano Magic, sotto l’aspetto della tensione emotiva e delle ricorrenze stilistiche: una tetra ballad, che ripete incessantemente il titolo, un mantra in negativo che si eleva come un canto apotropaico nei confronti delle paventate possibilità alle quali la vita può dischiudersi. Un senso di rassegnazione narrato, in modo ironico e disincantato, attraverso una serie di tentativi di suicidio falliti. Quasi uno scherzo della sorte.

Il capolavoro dell’album giunge con The Way We Treat The Animals, interpretata dalla voce di Josh Hight: struggente nel suo dipanarsi, il brano si evolve attorno al seducente legame chimico che si sviluppa fra gli strumenti chiamati a dare vita ad una partitura complessa nella quale gli innesti di violoncello e arpa producono vibrazioni celestiali, rinverdendo i fasti e gli ideali di “The Troubled Sleep Of Piano Magic” (2003). Una delle pagine più intense dell’intero songbook della band.

Neanche il tempo di riprendersi da cotanta bellezza che Jar Of Echoes arriva cingendo ulteriormente d’assedio i sensi: un’altra gemma opalescente fra gli steli d’erba del giardino segreto dei Piano Magic Anno Domini 2012: una atmosfera turbata, solcata dal canto sommesso di Glen, mentre tutt’attorno pulsano tempie e si dischiudono uova di ninfe.

You Don’t Need Me To Tell You è una trasognata preghiera atea con lo sguardo teso a scrutare gli spazi siderali del cosmo, ma con l’animo rassegnato a smarrirsi nel vuoto cosmico. Il disco potrebbe finire qui, in modo perfetto (forse un po’ troppo immune al contagio della speranza): c’è invece tempo per un’ultima eterea ballata, A Secret Never Told, ancora sorretta da una delicata struttura onirica e vagamente lunare, a cui la David-Guillou presta spirito e voce.

Strano credere che questo album sia stato prodotto e mixato dal batterista della band, Jerome Tcherneyan, visto che il suo strumento di elezione è quello che ne esce più sottotraccia. Ma l’apporto di ogni singolo componente dei Piano Magic non è mai limitato ad un ambito ristretto: ognuno contribuisce, in ossequio ad una sensibilità condivisa, ad espandere le proprie modalità espressive, facendo prendere ai Piano Magic la forma di un ensemble aperto a contributi differenti, provenienti tanto dal di dentro, quanto dall’esterno.

Quella di “Life Has Not Finished With Me Yet” sembra una musica concepita e suonata sotto il portico di una qualche cattedrale medioevale in una area rurale dell’Inghilterra circondata da capannoni industriali. Non ci sono prospettive ben precise e un certo senso di disorientamento pare essere fra gli obiettivi ricercati: di certo il desiderio di affrancarsi dal caos e dal rumore – sia anche solo metaforico – risulta essere la nota ricorrente di un lavoro che, se avesse potuto, avrebbe camminato in punta di piedi per non far volare via emozioni che hanno assunto le sembianze di farfalle notturne. Nella trama di una narrazione tesa a render conto della caducità della condizione umana, i Piano Magic hanno prescelto, come location d’elezione per “Life Has Not Finished With Me Yet”, interni scarni e scarsamente illuminati: la soluzione più consona ad esprimere il contesto immaginativo da cui scaturisce la sua ispirazione.

Una delle opere meno immediate della loro discografia e destinata pertanto a non essere goduta da chi ha una vita governata dalla fretta. In tal senso, è un disco decisamente esigente, che richiede ai suoi ascoltatori di entrare nel suo cono d’ombra, abituando gradualmente la vista, senza fare un passo verso di loro e concedersi un attimo prima del dovuto.

Non è dato, al momento, dire se entrerà nel novero dei masterpiece riconosciuti dei Piano Magic (ma anche qui i fan non sono unanimemente concordi sugli stessi titoli): considerandolo in sequenza alla progressione che l’ha preceduto potrebbe apparire un opus minore: dotato di un appeal minore, dotato di una forza minore. Eppure estrapolandolo dalla storia della formazione (come fosse un capitolo a sé, un atto unico), riesce a rivelare la sua essenza musicale e l’intero immaginario poetico ad essa congiunto, senza compromessi, senza mediazione, senza espedienti. Professando un’arte sonora antica, anzi, fuori dal tempo: dulcimer, glockenspiel, piano, viola, violoncello sono lì a sottolinearlo. Un’arte vissuta, radicalmente, a cuore nudo.  

 

(Sul sito della band è possibile acquistare l’album insieme ad un bonus EP con quattro inediti che non sarà reperibile altrove)

V Voti

Voto degli utenti: 6,4/10 in media su 9 voti.
10
9,5
9
8,5
8
7,5
7
6,5
6
5,5
5
4,5
4
3,5
3
2,5
2
1,5
1
0,5
betta62 7,5/10
bluewitch 6,5/10
REBBY 6/10
Dr.Paul 5,5/10

C Commenti

Ci sono 2 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
Effettua l'accesso o registrati per commentare.

crisas alle 2:07 del 12 giugno 2012 ha scritto:

Non è possibile trovare niente in giro a parte questa singola traccia.

REBBY (ha votato 6 questo disco) alle 11:48 del 24 settembre 2012 ha scritto:

"Una delle opere meno immediate della loro discografia...", senza dubbio.

Dopo i primi ascolti l'impressione è proprio quella, "(considerandola in sequenza alla progressione che l'ha preceduta) di un opera minore, dotata di minore appeal e forza"

Judas, "l'episodio più pienamente riconducibile all'eperienza tribal-wave dei Dead can dance", è nettamente il mio brano preferito eheh