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R Recensione

6,5/10

Rome

Hell Money

Non è tipo da starsene con le mani in mani e sedersi sugli allori Jerome Reuter. Che non sia personaggio da celebrazioni, ce n’eravamo d’altronde accorti da un pezzo. Dopo il mastodonte a tre teste "Die Æsthetik Der Herrschaftsfreiheit" (pubblicato in edizione limitata nel 2011 e “per le masse” a inizio 2012), il tenebroso crooner lussemburghese, riprende in mano la chitarra acustica per dar voce ad un album dalle forme più "convenzionali" (semplici - si fa per dire - dark folk-songs), sia nella durata (il cd dura 43 minuti), sia nel non prefissarsi narrazioni necessariamente "alte" invischiate con Storia e filosofia.

Tutte le canzoni vengono generate con il solo supporto della sei-corde (il breve strumentale Red-Bait guidato dal piano non fa testo) e non vengono trasformate in quelle sontuose cavalcate elettroacustiche scandite da ritmiche marziali e da synth glaciali che abbiamo imparato ad associare allo pseudonimo di Rome (a parte forse la sola Amsterdam, The Cleaning). Infatti questo "Hell Money", nel suo sofferto intimismo, avrebbe forse potuto essere a tutti gli effetti un lavoro firmato da Jerome Reuter con nome e cognome, viste anche le struggenti tematiche tese a narrare i sotterranei percorsi dell'anima del songwriter, che vacilla con lo stringersi del cappio al collo della nostra contemporaneità.

Per dirla con le parole del suo autore: “Hell Money è un tour-de-force emotivo attraverso i logorii interiori di un individuo tormentato … un viaggio nel cuore della tristezza, dove l’avidità, la dipendenza e l’auto-immolazione hanno preso il controllo sulla sanità mentale”. Fester, This Silver Choir (che ha già le caratteristiche del classico), Rough Magic riescono, pur nella loro scarna veste sonora, a disegnare i tratti somatici del mondo sonoro di uno fra i più autenticamente europei dei giovani compositori del presente. La magia che ha finora accompagnato la scrittura di Reuter permane anche nella nudità e nell’asprezza delle nuove canzoni: ma non è una scoperta clamorosa, visto che i suoi brani – anche i più magniloquenti – nascono in una veste minimale e spesso, nella dimensione live, ad essa ritornano abbandonando ogni orpello.

Tuttavia la situazione ha in sé una certa ambiguità: perché se da una parte è vero che il “fascino dell’artista” sopravvive alla rinuncia della sontuosità (concettuale come strumentale), dall’altra – ridotta all’essenza – la sua sofferta poesia appare in modo più evidente vittima di alcuni cliché interpretativi che già in passato sono emersi dalla prolifica vena creativa di Rome: la ricerca dell’evocatività prima di ogni altra cosa, il decadentismo a tutti i costi, l’espressione spasmodica dell’afflizione, il perseguimento del crepuscolarismo, l'adozione di una estetica gothic, il ritornare su consolidate progressioni armoniche. A tutto ciò forse aggiungerei il ricorso insistente del riverbero nel canto.

Forse è proprio la smodata prolificità - otto album, di cui uno triplo, a partire dal 2006 più svariati EP  - che tende ad esporre le composizioni al rischio di sembrare tutte appartenenti a lidi musicali così attigui da disegnare un territorio dalla morfologia ostinatamente uniforme. Però quando, appunto, la coerenza arriva a confondersi con la continuità, il senso di deja-vù diviene qualcosa di più di una semplice impressione: una Tightrope Walker o una This Silver Choir, per quanto bellissime, quante volte ci pare di averle già sentite, anche se siamo al primo ascolto? Fortunatamente abbiamo brani come Pornero (ispirata e clastrofobica ballad dal retrogusto desertico) e The Demon Me (tenue teoria ambient applicata alla forma canzone).

Per chi non avesse le coordinate per inquadrare l’orizzonte musicale del lussemburgese, forniamo qualche indicazione per meglio orientarsi: la voce risulta impostata sulle tonalità di Andrew Eldritch dei The Sisters of Mercy, mentre la il suo cupo songwriting contempla la raffinatezza di Leonard Cohen, la scontrosità di Scott Walker, il sentimento buio dei Death In June (forse la pietra di paragone più consona), l’intimismo del David Bowie più introspettivo, il rassegnato decadentismo dei Piano Magic, la mesmerica arte dei Dead Can Dance.

Ad ogni modo le tante definizioni affiorate negli anni per “riassumere” la proposta di Jerome Reuter (apocalyptic pop, military pop, neofolk, dark folk), sono tutte valide eppure singolarmente insufficienti a definire davvero il suo cantautorato sotterraneo. Un cantautorato sotterraneo eppure, sotto molti aspetti, ecumenico.

"Hell Money" ha il sapore di un'opera di transizione verso un nuovo progetto di più ampio respiro: un'opera che si presenta - per sua natura costitutiva e per le sembianze assunte - come minore, pur non fallendo nel dimostrarsi magnetica e significativa.

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Voto degli utenti: 6,5/10 in media su 3 voti.
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REBBY 6,5/10

C Commenti

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REBBY (ha votato 6,5 questo disco) alle 9:25 del 4 febbraio 2013 ha scritto:

E' un opera minore di un grande artista.

This silver coil è il mio brano preferito.