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R Recensione

7/10

Zu & Eugene Robinson

The Left Hand Path

e volta nostra poppa nel mattino

de’ remi facemmo ali al folle volo

sempre acquistando dal lato mancino

Dovevano disintegrarsi con “Carboniferous”, gli Zu, esplodere al consumarsi delle pelli e al deflagrare delle frequenze basse, risucchiati da sé stessi, collassati per troppa densità e per troppo radicalismo annientatisi. Dovevano firmare con “Carboniferous”, gli Zu, la conclusione perfetta di una carriera parimenti baciata da concretezza, prolificità e scintilla del genio. Dovevano, già, e sembrava peraltro che avessero dovuto obiettivamente prima ancora che moralmente, che nulla rimanesse da dire, niente da dimostrare. Era, forse (e lo è ancora), venuto il tempo di altro. Poi, a marzo, il ricongiungimento inaspettato, la liason con Gabe Serbian dei Locust, un nuovo ed ibrido extended play (“Goodnight, Civilization”) che fece intendere tutto e niente. Correvano forse lontani da “Carboniferous”, gli Zu, terrorizzati dalla sua eredità, perseguitati dai propri fantasmi, gravati dalla responsabilità di far dimenticare quindici anni memorabili. In quel tutto e niente c’è un rampicante oscuro, un germoglio infido, un corpo estraneo. In quel tutto e niente gli Zu rompono con gli specchi del passato, marcando una forte discontinuità artistica: il tutto e niente ha, come già molte altre volte, le fattezze di un quarto a parte (qui, dopo gli Spaceways Inc., i Dälek, Mats Gustafsson, Nobukazu Takemura, Il Teatro Degli Orrori ed Eugene Chadbourne un altro Eugene, Robinson, degli Oxbow) e, come tutto e niente, “The Left Hand Path” è un diario di viaggio di torturata, indecifrabile immaterialità.

Partecipare, fattivamente, a cotanta, spettacolare, inattesa insondabilità è osservare Robinson rinchiuso in un panopticon, confinato nella cella di massima sicurezza. “The Left Hand Path” è il pianto del jujitser amatoriale in declino, atterrato dalle traversie della vita e da avversari ben più forti di lui, così vicino al barrito di un elefante e allo strepito di un sax baritono (“6 O’Clock”): sono le afasie del fuggitivo, del braccato protagonista di una frammentata sonorizzazione no wave (“Beg”); è il blues semi-analogico, ascetico nella strumentazione, catacombale nell’interpretazione, sanguinante nell’animo (“Taking The Give”); sono gli affronti urlati, il malessere post-core in tremenda dissociazione con la controparte musicale (“The Key To Good Dental Health”); è il folk apocalittico degli schizofrenici, la sceneggiatura di una geremiade per solitari e perdenti (“We’re All Friends”); sono gli ululati alla luna di “Looking For The Devil” (dove il basso in solitaria del redivivo Massimo Pupillo disperde in penombra una massa di sordidi field recordings), i drone sacrali di “Land Lord” che echeggiano sotto le volte di una chiesa bombardata, il lacrimoso gospel in rewind di “Take-Away Truck” (nient’altro oltre ad un pugno di armonici naturali), Luca Mai che rumina e rigurgita cascate di note strozzate nell’americana spettrale e marcescente di “Shame On Me”, la candida nudità di “A Slick Not Spoken Of Now. Or Again”, i lontani bizantinismi di “Pinning The Body To The Soul” confusi in un accavallarsi di sillabe, suoni, ingiurie, digrignare di denti.

Dovevano morire, gli Zu, dopo “Carboniferous”. Sono invece rinati: suicidandosi. Dimenticate quanto è stato.

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