Zu & Eugene Robinson
The Left Hand Path
e volta nostra poppa nel mattino
de remi facemmo ali al folle volo
sempre acquistando dal lato mancino
Dovevano disintegrarsi con Carboniferous, gli Zu, esplodere al consumarsi delle pelli e al deflagrare delle frequenze basse, risucchiati da sé stessi, collassati per troppa densità e per troppo radicalismo annientatisi. Dovevano firmare con Carboniferous, gli Zu, la conclusione perfetta di una carriera parimenti baciata da concretezza, prolificità e scintilla del genio. Dovevano, già, e sembrava peraltro che avessero dovuto obiettivamente prima ancora che moralmente, che nulla rimanesse da dire, niente da dimostrare. Era, forse (e lo è ancora), venuto il tempo di altro. Poi, a marzo, il ricongiungimento inaspettato, la liason con Gabe Serbian dei Locust, un nuovo ed ibrido extended play (Goodnight, Civilization) che fece intendere tutto e niente. Correvano forse lontani da Carboniferous, gli Zu, terrorizzati dalla sua eredità, perseguitati dai propri fantasmi, gravati dalla responsabilità di far dimenticare quindici anni memorabili. In quel tutto e niente cè un rampicante oscuro, un germoglio infido, un corpo estraneo. In quel tutto e niente gli Zu rompono con gli specchi del passato, marcando una forte discontinuità artistica: il tutto e niente ha, come già molte altre volte, le fattezze di un quarto a parte (qui, dopo gli Spaceways Inc., i Dälek, Mats Gustafsson, Nobukazu Takemura, Il Teatro Degli Orrori ed Eugene Chadbourne un altro Eugene, Robinson, degli Oxbow) e, come tutto e niente, The Left Hand Path è un diario di viaggio di torturata, indecifrabile immaterialità.
Partecipare, fattivamente, a cotanta, spettacolare, inattesa insondabilità è osservare Robinson rinchiuso in un panopticon, confinato nella cella di massima sicurezza. The Left Hand Path è il pianto del jujitser amatoriale in declino, atterrato dalle traversie della vita e da avversari ben più forti di lui, così vicino al barrito di un elefante e allo strepito di un sax baritono (6 OClock): sono le afasie del fuggitivo, del braccato protagonista di una frammentata sonorizzazione no wave (Beg); è il blues semi-analogico, ascetico nella strumentazione, catacombale nellinterpretazione, sanguinante nellanimo (Taking The Give); sono gli affronti urlati, il malessere post-core in tremenda dissociazione con la controparte musicale (The Key To Good Dental Health); è il folk apocalittico degli schizofrenici, la sceneggiatura di una geremiade per solitari e perdenti (Were All Friends); sono gli ululati alla luna di Looking For The Devil (dove il basso in solitaria del redivivo Massimo Pupillo disperde in penombra una massa di sordidi field recordings), i drone sacrali di Land Lord che echeggiano sotto le volte di una chiesa bombardata, il lacrimoso gospel in rewind di Take-Away Truck (nientaltro oltre ad un pugno di armonici naturali), Luca Mai che rumina e rigurgita cascate di note strozzate nellamericana spettrale e marcescente di Shame On Me, la candida nudità di A Slick Not Spoken Of Now. Or Again, i lontani bizantinismi di Pinning The Body To The Soul confusi in un accavallarsi di sillabe, suoni, ingiurie, digrignare di denti.
Dovevano morire, gli Zu, dopo Carboniferous. Sono invece rinati: suicidandosi. Dimenticate quanto è stato.
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