Father Murphy
Croce
Come la croce è fatta da due assi, così pure i Father Murphy, dallanno scorso, si costruiscono sulle sole traiettorie di Freddie Murphy e Chiara Lee. E su una dialettica tra due elementi, allo stesso modo, si struttura anche Croce, il nuovo album del duo trevigiano, eccezionalmente titolato in italiano malgrado luscita per The Flenser (USA) e la registrazione e il mixaggio perfezionati oltreoceano (rispettivamente da John Dieterich e Greg Saunier dei Deerhoof): da una parte lascolto sottopone allindustrial lacerante del lato A, dallaltra alla possibile redenzione del lato B. Come sempre nei Father, la scelta del polo da illuminare (sacrificio vs elevamento) spetta a chi ascolta, ma la tavola più pesante da portare sulle spalle appare decisamente quella ossessiva e cupa, per un album forse ancora più violento dei precedenti.
Il lavoro sulle percussioni, tutte ormai riprodotte su macchina, rende Croce, a tratti, un disco più vicino a unaura Vatican Shadow che ai consueti modelli dei Father Murphy (Swans in testa), anche se ormai la band ha sviluppato un linguaggio tutto suo, fatto di noise scioccante, mantra vocali sempre più concentrati ma proprio per questo disturbanti, organi graffiati e chitarre stravolte. Le linee scheletriche di In Solitude, in cui la chitarra è scartavetrata con maniacale cura, tra larsen e interferenze buie in crescendo, in una devastazione che però fuma di viscere profonde, sono forse il punto più basso del dolore e il punto più alto del disco, vera vetta del Calvario che i colpi durissimi di A Purpose, dopo lintro più melodica ma di una beffarda melodia di Blood Is Thicker Than Water, avevano aiutato, a furia di grida strazianti e puntelli, a raggiungere.
La musica dei Father Murphy è sempre più sciolta da ogni riferimento a un genere: è sempre più installazione sonora, cabaret virato allhorror, messinscena dark, opera concettuale. I pezzi sembrano stazioni di una sacra rappresentazione o di una via crucis per il teatro. Ci si ferma, si osservano lo sferragliamento e lesposizione del dolore (Long May We Continue, All the People Yelling Fire), tra tonfi di beat e cori funebri, e si passa oltre. È il disco più sperimentale dei Father Murphy, e anche il più inattuale, ma che proprio questo tempo labbia fatto partorire fa paura e dà speranza. Al di là del terrore, infatti, il potenziale catartico cè: We Walk By Faith, con tromba ad accompagnare la solenne recitazione (non più canto) di Freddie, rilancia verso dimensioni più alte e astratte, con la tensione strumentale a metà pezzo che tiene come sospesi.
Una salvezza privata è concepibile, ma accompagnata a un requiem collettivo (They Wont Hurt You), come limponenza dellorgano a canne, nel finale, suggerisce, sicché lincrocio della propria traiettoria con quella degli altri non sembra poter dare altre figure se non la croce stessa, concedendo però al singolo una dissolvenza leggera come quella accennata in copertina. Lascolto, intanto, è più duro e ostico del solito. Lesperienza e il percorso complessivi dei Father Murphy sempre più ricchi e complessi.
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