Deerhoof
Deerhoof vs. Evil
Questo titolo bizzarro non vuole seguire la moda lanciata da Edgar Wright e dal suo bislacco film “Scott Pilgrim vs. the World”. Quel “VS.” è più un monito con cui il quartetto di San Francisco cerca di avvisare i suoi fautori che il seme del male (inteso più come digressione stilistica che come deterioramento) tenta di germogliare ed attecchire all’interno del project. Come non dargli torto dopo tredici anni di instancabili inni astrattisti, musiche geometricamente sconnesse, miscugli sonori, ed atmosfere avanguardiste che confluivano in una miscela artistica esplosiva e tuttavia concreta. Oggi i Deerhoof si sono trovati costretti in una morsa d’acciaio, intrappolati tra la voglia di far progredire ulteriormente la loro proposta e il dovere (ma forse è più doveroso parlare di costrizione) di dimostrare qualcosa in più delle altre indie band.
Nella loro personale vita artistica il male non rappresenta più una minaccia, bensì un oscuro passeggero con il quale confrontarsi. Un passeggero quasi assente nelle precedenti produzioni (es. Friend Opportunity), dove i Deerhoof intessevano una trama strutturata su vari livelli e basata su una forma-canzone rock che sfumava in atmosfere lisergiche; ma, tuttavia, oggi pericolosamente presente in Deerhoof vs. Evil, dove avviene esattamente l’opposto: la forma canzone vira verso lidi pop-oriented, spingendo contemporaneamente l’acceleratore su incursioni progressive e approcci sperimentali che convergono in scanalature irregolari. Un coacervo di generi compressi in una manciata di minuti che non lasciano il tempo all’ascoltatore di godere gli sviluppi dei singoli brani. Soprattutto in alcune canzoni, dove il crescendo dinamico lievita sino al culmine dell’apertura per poi morire senza motivo, lasciando sgomento l’ascoltatore. Muta anche il modo di cantare di Satomi Matsuzaki, eccessivamente “nipponico” e zuccheroso, senza mai riuscire ad arrivare ad un equilibrio perfetto ( raggiunto con “Kidz are so small”) tra l’ironia manga e la linea melodica più classica. Mentre rimane immutata la sua passione per la scrittura ermetica, fondata sulla ripetizione di una frase-chiave all’interno del testo e che in questo album viene moltiplicata esponenzialmente quasi come la punta di un Lp che salta.
Tuttavia, sporadicamente, emerge ancora il lato allegorico e bizzarro dei Deerhoof, quello che nei suoi singoli ghirigori armonici riusciva a dare un senso al tutto. Ad esempio nelle spiazzanti sperimentazioni folkloristiche macchiate da incursioni catalane ("Qui dorm, només somia") o la spagnoleggiante “No one asked to dance”; canzoni che riescono a dare ampio respiro e valore aggiunto all’album, regalando un lato più intimista dei Deerhoof. Mentre in altri episodi si registra un piacevole dualismo sonoro: un lato squisitamente twee ("Super Duder Rescue Haed") dove la struttura disarticolata incontra i riff di facile presa, ed un altro lato più rock ("The Merry Barracks") caratterizzato dai contrappunti botta/risposta tra Matsuzaki e Saunier ed arricchito da un tappeto ritmico caricato ad orologeria che culmina in un furioso beat blasting.
Dunque è questo che intendevano i Deerhoof con questo titolo: il Vs. è il perno sul quale si basa l’equilibrio della loro musica. Eccessivamente stramba in alcuni casi ma piacevolmente strampalata in altri. Tuttavia la loro peculiarità è quella di “entropizzare” i loro brani, donando un ordine dove altri troverebbero caos: se questa particolarità viene meno, il perno si rompe e “Evil” ha il sopravvento.
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