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8/10

Rain Tree Crow

Rain Tree Crow

C’erano una volta i Japan. Ma ci furono una volta, una sola volta, anche dei Japan che non vollero chiamarsi Japan. Però, pur sentendo troppo pesante il loro nome, questi artisti “formerly known as Japan” decisero ugualmente di non rinunciare alla loro eredità sonora. In Rain Tree Crow, Sylvian / Jansen / Barbieri / Karn riattualizzano quel continente sonoro depurandolo da orpelli new-romantic e aprendolo alle evolute esperienze già raggiunte individualmente, nel giro di pochi anni.

Ma facciamo un passo indietro: tutti sappiamo quanto instabile sia sempre stato l’equilibrio che ha legato Sylvian a Karn, però già a partire dal 1989 qualcosa stava muovendosi, di nuovo, in quella direzione. Oltre alla carriera di Sylvian, che meno di tutti sentiva il bisogno di rispolverare l’antico conio (aveva già mietuto i successi dei suoi primi tre album solisti ed era appena passato un anno da quel picco sperimentale di  Flux + Mutability composto con quel genio di Holger Czukay, una delle teste pesanti/pensanti degli immortali Can), anche quelle degli altri sembrava aver avuto sbocchi professionali/economici comunque tali da non dover tentare alcuna “operazione nostalgia”. Ma a porre definitivamente il veto sul riutilizzo del nome, fu David Sylvian che si spinse fino a far inserire il dictat in una specifica nota contrattuale. Per nessuna ragione al mondo si doveva pubblicizzare il cd come frutto di una reunion. Per nessuna ragione al mondo.

Ma qui venne il bello. Dopo aver speso quasi tutto il budget disponibile, spostandosi in diversi studi europei (anche in Italia), dopo sette mesi il quartetto dovette bussare alle porte della Virgin per chiedere un ulteriore investimento. Indovinate un po’ quale fu l’imposizione della Virgin? Esatto proprio quello che avete pensato: “no problem, a patto che utilizziate il nome Japan”. Da ridere. Il risultato? Sylvian irremovibile sulle sue posizioni, Jansen-Barbieri-Karn decisamente disponibili a cedere alla richiesta (non così incomprensibile, diciamoci la verità) della Virgin.

A questo punto la mossa a sorpresa di Sylvian: lui avrebbe messo i soldi e, senza ulteriori registrazioni con gli altri tre componenti, sarebbe stato il padrone assoluto dell’evoluzione artistica del progetto, facendosi carico (da solo), di dirigere il missaggio del materiale già disponibile. Purtroppo anche a Sylvian era chiaro quanto il materiale fosse ancora bisognoso di sviluppi: tuttavia, non potendo contare più su nessuno, l’unica opzione divenne quella di lavorare sui nastri nelle sue mani, per otto lunghi mesi, fino a che tutto parve abbastanza completo e coerente per dargli la forma che poi abbiamo conosciuto. Il gruppo (il cui “nuovo” nome fu ovviamente un parto della creatività Sylvianica) era nato già morto, mesi prima dalla pubblicazione dell’album. La musica è sintomo e cura, secondo la filosofia di Sylvian: la necessità di non lasciare nel dimenticatoio la musica prodotta, abbandonando il progetto, non è mai stato nelle sue intenzioni. Sarebbe stato come essere affetti da una malattia di cui si aveva anche la cura a portata di mano, essendo la stessa cura generata dal medesimo virus scatenante. Il ciclo andava completato, con le stesse condizioni e con le stesse convinzioni da cui aveva preso vita. 

I momenti dell’album più melodici e corali sono limitati all’iniziale e sussultoria Big Wheels In Shanty Town, al singolo Blackwater (esiste anche un videoclip), alla sognante Pocket Full Of Change (quanto deve una Fadeaway dei Porcupine Tree a questo brano?), alla superba Every Colour You Are (resa memorabile nella tournée di Sylvian in combutta con Robert Fripp) e alla vertiginosa Blackcrow Hits Shoe Shine City. Il resto appare, pur se mai del tutto privo di fascino, comunque abbastanza disomogeneo, ricordando di più le esperienze strumentali, vagamente speziate a base di quel noise-jazz-etno-ambient, già presente nella versione “estesa” di Gone To Earth (1986). Tanto per capirci tutte quelle trame sperimentali che Sylvian aveva imparato a tessere in compagnia di Holger Czukay: Red Earth (As Summertime Ends), New Moon At Red Deer Wallow, gli esempi più significativi. Altri esperimenti sono decisamente più piccoli e meno incisivi. Senza neanche dirlo, il disco non ebbe il successo sperato. A contribuire, ovviamente in modo negativo, furono la sequela di insulti che Sylvian e i suoi ex-compagni si scambiarono, a distanza, dalle pagine delle principali riviste di musica dell’epoca. E per la miseria, non ci andarono leggeri! Per capire quanto profonda fosse la fattura, bisogna ricordare che Sylvian e Jansen sono fratelli.  

L’unica cosa certa è che, senza alcuna ombra di dubbio, tutti i componenti della compagine, nei periodi in cui le parti dell’album venivano registrate, avevano nelle orecchie Spirit of Eden dei Talk Talk. Nonostante tutto, Rain Tree Crow rimane un album-manifesto più per altri musicisti che avrebbero solcato quegli stessi mari emozionali, che per gli ascoltatori, seppur fan di Sylvian. E quelle sonorità sarebbero rimaste appiccicate nelle dita e nelle note tanto di Jansen, quanto di Barbieri e Karn. Andrebbe ricordata la bellissima versione di Big Wheels In Shanty Town sul lodevole live Playing In A Room With People (2001) a nome del trio di musicisti appena citati: nel live è presente anche Steven Wilson, quasi a ricambiare il favore a Jansen/Barbieri/Karn per quella indimenticabile del ’93 dove tutti era presenti a dar vita a quella eccelsa line-up dei no-man, ovviamente insieme a Tim Bowness. Cerchi, cerchi concentrici che continuano a chiudersi. E ad aprirsi.

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C Commenti

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Lobo alle 18:46 del 2 marzo 2010 ha scritto:

E questi chi li conosce?

Franco alle 15:05 del 7 aprile 2010 ha scritto:

Un disco interlocutorio con alcuni (pochi in realtà) brani abbastanza interessanti ed altri meno, dopo l'esaltante Secrets of The Beehive ci si sarebbe aspettato molto di più da David Sylvian.

Utente non più registrato alle 14:13 del 14 febbraio 2012 ha scritto:

A mio parere quest'album é bellissimo e supera abbondantemente anche i lavori degli stessi Japan...

swansong alle 15:41 del 14 febbraio 2012 ha scritto:

A mio parere quest'album é bellissimo e supera abbondantemente anche i lavori degli stessi Japan...

VDGG? E perchè mi manca? Bisogna rimediare immediatamente eh eh..

Utente non più registrato alle 15:19 del 15 febbraio 2012 ha scritto:

RE: A mio parere quest'album é bellissimo e supera abbondantemente anche i lavori degli stessi Japan...

swangsong non saprei, io, come al solito, caldamente consigliai...

swansong alle 16:40 del 15 febbraio 2012 ha scritto:

RE: RE: A mio parere quest'album é bellissimo e supera abbondantemente anche i lavori degli stessi Japan...

Azz..allora mi era sfuggito!

scottwalker (ha votato 9 questo disco) alle 11:08 del 16 marzo 2012 ha scritto:

ALBUM MAGICO, MIGLIORE DEI VECCHI JAPAN!

simone coacci alle 11:42 del 16 marzo 2012 ha scritto:

RE:

Walker puoi scrivere minuscolo, per favore?

scottwalker (ha votato 9 questo disco) alle 13:20 del 16 marzo 2012 ha scritto:

Simone, chiedo scusa hai ragione.

simone coacci alle 16:13 del 16 marzo 2012 ha scritto:

Di nulla, ci mancherebbe. E benvenuto.

colalongo alle 13:50 del 28 febbraio 2015 ha scritto:

Uno dei piu' bei albums della storia della musica, con vette da brivido quali Blackwater, Pocket full of change ed Every colour you are. Disco indimenticabile, che spazza via quanto fatto dai Japan in precedenza. Assolutamente ai livelli del masterpiece Gone to earth. Ho sentito migliaia di dischi in vita mia, dal metal al prog, questo LP rimane stabilmente nella mia top ten e penso mai ne uscirà. Brividi!!!

Utente non più registrato alle 14:17 del 18 marzo 2015 ha scritto:

Che disco Gone to Earth, anche se, a mio parere, The First Day ed il live Damage sono superiori...forse perchè maggiore l'apporto di Sua Maestà Robert Fripp...

Paolo Nuzzi (ha votato 8 questo disco) alle 12:31 del 21 giugno 2016 ha scritto:

Disco favoloso, ma di fatto una one man band e si sente, ma quel basso, quel basso?!? Mick Karn è sempre un genio