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R Recensione

6,5/10

Die Anarchistische Abendunterhaltung

Eight Definitions

Eight staves, downhill

Dall'escapismo alla rinascita

La sofferenza dei tempi bui, l'impossibilità del rifugio, l'amarezza dei giorni che trascorrono laceranti e non tornano più. “The Shepherd's Dream” era il de profundis dei Die Anarchistische Abendunterhaltung, palese atto di sfiducia nei confronti dell'umanità, lavoro complesso e complicato, frastagliato esteriormente e tormentato interiormente: una raccolta di suite catacombali, antologia di lunghi e catartici travagli senza via di fuga. Il quartetto belga assorbiva tutta la negatività derivante dall'infida e sottile distruzione del tessuto socio/economico e la sputava fuori, intatta, in un urlo significante di grande impatto e coraggio musicale. Dal coatto confino del poeta vate – parlavamo all'epoca di probanti similitudini con l'epopea personale di Virgilio – alla fenice seppia che, come in un lungometraggio di Giovanni Pastrone, rinasce – sontuosa, lirica, drammatica – dalle proprie ceneri. Hannes d'Hoine, bassista del quartetto belga, spiega così la genesi del nuovo “Eight Definitions”: “Every day we are dealing with doom and gloom and we are confronted with an epidemy of negativism. Therefore we found it important to go against the grain and present the audience with an alternative. Instead of letting ourselves fall into a downward spiral, we believe the end of every cycle marks a new beginning”.

Lost & Found – Chi esce, chi entra

L'allontanamento predicato ed invocato da “The Shepherd's Dream” ha mietuto, alla fine del percorso, una vittima eccellente. Il violoncellista Simon Lenski, membro fondatore del gruppo e geniale ideatore di alcune delle trame più oscure e disperate del capitolo precedente, ha deciso di trasferirsi a Berlino, lasciando formalmente il gruppo – formalmente, dicevamo, perché sia lui che il fratello, il violinista Buni, che aveva mollato la spugna già ai tempi di “Domestic Wildlife” (2006), collaborano attivamente alla stesura e all'esecuzione di molti dei brani presenti in scaletta. Per un pezzo importante che saluta, una fondamentale new entry trova posto nella rinnovata line up dei Die Anarchistische Abendunterhaltung: arriva il batterista Steven Cassiers, già membro di Dez Mona e Dans Dans che, nell'economia di “Eight Definitions”, trova cruciale collocazione. Sue sono le spazzole che donano a “Osloër Straße”, giusto per fare un esempio, quel tocco jazzato che ingigantisce i fantasmi trip-hop inquieti, cinematici, nerissimi degli archi, scenario da Rohmer irrancidito nell'acido, da sepoltura balcanica triste e malinconica, da liturgia laica per cello e clarinetto – brano, ça va sans dire, straordinario.

Nuovi edifici che crollano (dietro un mixer)

Sarà anche un disco a tinte tenui (anche se la cartella stampa parla di “lighter approach”, che non è esattamente la stessa cosa), ma è esplicativo il fatto che, in fase di missaggio e produzione, i Die Anarchistische Abendunterhaltung si siano affidati a Boris Wildorf, sto(r)ico personaggio associato agli Einstürzende Neubauten. Poco o niente ci azzecca la dinamica neoclassica del nucleo di Antwerp con le colossali voragini sonore di Blixa Bargeld e compari, e certo non è ancora arrivato il momento decisivo per spingere i DAAU verso i lidi dell'industrial: ciò nonostante “Eight Definitions”, lo step che, più di tutti gli altri, porta in sé impresso il trademark del quartetto, risente ancora di certi umori catramosi, artificiali, aggiunte esterne e contrasti non così sottili con la dimensione originariamente bucolica dei musicisti all'opera: i pad elettronici di “Anbau” enfatizzano proprio quella sottintesa componente ritmica e virale, nascosta tra le pieghe di un discreto volteggiare klezmer, che forse mancava dai tempi del capolavoro “We Need New Animals” (1997).

Un treno per Yuma

Chi non ha mai prestato un orecchio ai Die Anarchistische Abendunterhaltung rimedi al proprio errore, e riparta da qui. “Eight Definitions” – lungi dall'essere un disco perfetto, non all'altezza dei capisaldi passati e nemmeno di “The Shepherd's Dream”, per chi scrive – è il blob definitivo che, in poco più di tre quarti d'ora, rinchiude (si badi: non racchiude) tutte le anime, le mutazioni, le correnti, i concetti di uno dei gruppi belgi più noti e rinomati in circolazione. “1992” non è solo un omaggio alla prima di molte pietre miliari, l'anno in cui il complesso venne fondato (l'omonimo esordio è successivo, del 1995) ma, anche, una vera e propria autocelebrazione artistica, una lenta e vibrante rapsodia con archi e fisarmonica transustanziati quasi in drone naturali, e poi riavvolti, con funerea solennità, in un flebile magma post rock, rimasticato e impastato allo stremo. Un compendio efficace, per quanto non geniale.

Dansende Mieren (8.27)

Non l'ho ancora ben capito – se il segmento centrale di “Out Of The Woods”, dallo scorso album, fosse o meno una citazione delle Quattro Stagioni di Vivaldi, intendo. In “Dansende Mieren”, uno dei vertici del songwriting globale dei DAAU, il gioco intellettuale e metartistico si spinge ancora oltre. Da un'infiorescenza tango terribilmente Julia Kent, un matematico accavallarsi di linee di basso in perenne ricorsività, sbocciano fraseggi di assoluta solarità, di placidità quasi autistica, con un clarinetto che disegna carboncini infantili, filastrocche riscaldate da un gentile chiarore jazz: il girotondo in un attimo si sfalda e tutto precipita nel pulsare sordo e metallico di una percussione elettronica. Ora la fisarmonica risuona al rallenty, in un paradossale gemere psichedelico che tracima nel dub: sono le rovine di un passato glorioso riportate alla luce, e fatte rivivere di una vita nuova, entusiasmante.

Questi strani belgi

Prima il dovere, poi il piacere. Le formiche che sgobbano (è proprio “mieren” il termine nederlandese corrispondente) sono una metafora degli stessi Die Anarchistische Abendunterhaltung che, prima di abbandonarsi alle danze, incamerano fieno in cascina. “Werkende Mieren”, così, nasce come paso doble tzigano, una cornice ritmata in cui fa bella mostra di sé il violino di Buni Lenski. A chi è fuori dal giro non dirà nulla, ma io, che spesso percorro e batto similari sponde, ho avuto immediate reminiscenze di questa strabiliante composizione, una delle migliori in territorio eminentemente klezmer di mastro Zorn: segno che gli ascolti dei DAAU si attestano su di un livello di assoluta nobiltà e che, dopo un ventennio sulla cresta dell'onda, l'ispirazione agisce ancora come una spugna selettiva. Sarebbe un segno meno per molti: è un merito, invece, per me. Tant'è che quando “Delete Alt And Undo” si muove sulla stessa scia, con minore efficacia, imbastendo una romantic wave possentemente scandita dal beatbox ed avviata verso una coda free jazz, la mancanza di un solido punto fermo si fa, alla lunga, sentire.

Dov'è finito “The Shepherd's Dream”?

Già... Possibile che quel monolite all'inquietudine si sia così dissolto, senza lasciar traccia in ciò che è venuto dopo? L'uscita nominale di Simon Lenski ha senz'altro accelerato il metabolismo digestivo dell'amaro fiele, ma che quanto esternato non fosse una bolla di sapone è altrettanto, se non più, palese. Della riuscitissima “Osloër Straße” abbiamo, difatti, già detto. Qui e lì gli scheletri tornano a galla: “Feniks” è un dagherrotipo slowcore senza chitarre, mentre Han Stubbe, in “Berlin - Deventer – Antwerpen”, apre lacerazioni sottocutanee prontamente riempite da un sapiente lavorio di bassi effettati. Quasi fossero solo brutti ricordi, tuttavia, la qualità dei brani maggiormente legata al più recente e vivido passato è, complessivamente, minore: e concretamente, e concettualmente.

Ciò che rimane

Parecchio, di positivo. Qualcosa scorre via, senza colpo ferire. È quasi un miracolo, tuttavia, che questi ragazzacci in capo al mondo abbiano saputo ricostruire, con pazienza e meticolosità, un tale affresco sonoro, viste e considerate le varie disavventure che hanno portato agli stravolgimenti attuali. Da qualsiasi angolazione si decida di osservarli, mai una volta che i Die Anarchistische Abendunterhaltung lascino indifferenti.

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