R Recensione

8/10

Bachi Da Pietra

Non Io

I Bachi da Pietra giocano con l’irrisolutezza della sperimentazione post-folk,con gli acidi capillari di atmosfere rarefatte e ispide. In verità, già la formazione in duo (chitarra e batteria) racchiude l’idea di una esigenza espressiva che sappia circoscrivere il proprio lirismo entro una forma sonora piuttosto scarna e immediata, scevra di orpelli e dilungaggini da trip collettivo.

Il fatto che i Bachi da Pietra rifuggano un certo approccio freak e “incompiuto”, non significa che gli stessi non siano in grado di inglobare un’idea trasversale di musica. I Bachi sono immediati, ma non facili. Il loro rock è talmente sobrio, quasi asettico, che costringe ad un ascolto poco immaginifico, ma concentrato; perché la voce-crooner di Giovanni Succi è registrata in modo tale da entrare prepotente nelle orecchie,piena di eco e di potenza.

La sua poetica bastonata è un flagello di insofferenza, smuove l’intestino. Ci si annienta in un’ intima confidenza con Succi. La batteria di Bruno Dorella sembra scandire il tempo della vita (o della morte?), un po’ come accadeva nella Sea Song di Robert Wyatt: l’incedere del tempo, suonato da una percussione primordiale e semplicissima. La voce acclama, soffre, strazia; la batteria è una lenta clessidra che aspetta la fine di un’ esistenza che può procedere lenta, monocorde, inesplosa. Dorella suona Succi, si potrebbe dire.

Succi snocciola in versi malumori e depressioni in odor di nichilismo, impregna le parole di allegorie e di stanze bukowskiane. La sua chitarra graffia e accarezza come quella di un Steve Albini sotto morfina, come quella di un John Frusciante che jamma con John Lee Hooker.

Anche questo “Non Io” ( rilasciato dall’emergente etichetta milanese Die Schachtel) continua sul percorso iniziato dal debutto “Tornare sulla terra”, che due anni fa restituì ai sobborghi musicali Giovanni Succi, protagonista di quel prezioso progetto che furono i Madrigali Magri ( a risentirli col senno di poi, embrione dei futuri Bachi da Pietra).

Non io” riassesta colpi duri alla opacità del (quieto) vivere, che si stagna nella nostra incapacità di cogliere attivamente il senso di perdizione e di spersonalizzazione a cui siamo ineluttabilmente destinati, rinchiusi in un sistema di apparenze e spettacolarizzazione volgare dei sentimenti. Allora gli uomini diventano “Macchine di carne,cursori di un sistema efficiente e assente”.

È un racconto in stato di narcolessi, un cantico di frustrazione: quale sarebbe la nostra identità,se viviamo una quotidianità talmente opprimente e invadente da non farci distinguere ciò che è più proprio per ognuno di noi da ciò a cui siamo inclini a omologarci? “ Per vedere,devi perdere gli occhi”. O forse non sono solo che Altri guasti ?

Crudezza e sentimento. Disincanto. Farfallazza e Giorno perso catturano per le policromie sonore, sospese tra rumorismi nascosti e vocalizzi sussurrati. Folk-doom. Avant-Blues. Intanto la voce di Succi si fa sempre più monocorde, più cupa, fino alla catarsi finale di Ofelia, femmina che è ossigeno,è amore. Chitarre aperte, accordi maggiori, un cantato lucido, rassenerato. Ma Ofelia non può essere la pace dei sensi, Succi non si lascia facili vie di fuga, non ammette rivoluzione nè redenzione. “Vivere ancora per morire ancora come bere ancora per fumare ancora(…),come amare ancora come vivere ancora per morire ancora”.

E il sole torna a calare, tra una impietosa non-accettazione di sé, tra le pieghe del pessimismo più viscerale, tra la morte dell’io e la rinascita di un Non-io.

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REBBY 6/10

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