Joanna Newsom
Have One On Me
Tempo al tempo. Chi ha tempo non aspetti tempo. Prenditi il tuo tempo. Tempus Fugit. Perfino dei modi di dire così discordanti concordano su un fatto molto semplice: il tempo è relativo, è un astrazione, ciò che a qualcuno può sembrare eterno, interminabile, per altri scorre via senza lasciare traccia, troppo in fretta. A suo modo anche Have One On Me, il grande ritorno della “folkompositrice” Joanna Newsom, è un disco che ha che fare, in parecchie accezioni, con il concetto di tempo. Quello che è trascorso da Y/S, innanzitutto: parecchio, se pensiamo al convulso impressionismo della fenomenologia musicale odierna, o poco, se consideriamo che a quattro anni dalla sua uscita quel disco è diventato quasi un totem della musica d’autore ai tempi di internet, un punto di riferimento, la dimostrazione che è ancora possibile fare le cose in grande come nei mitologici anni –anta (a ciascuno il suo, scegliete voi il decennio). Il tempo che ci vuole per suonarlo dall’inizio alla fine (non parliamo poi di metabolizzarlo, analizzarlo o sintetizzarlo): tre facciate con più di due ore di musica, diciotto brani e nessuno che scenda sotto i quattro minuti. Tanto, troppo, se stiamo lì col bilancino a misurare il perché di ogni cosa,a chiederci se c’è un prima e un dopo, un inizio e una fine, a fare confronti col passato recente, poco, un lungo respiro praticamente, se ci abbandoniamo al flusso - ora stillante, ora torrenziale - della narrazione orchestrale, all’immagine cangiante del grande affresco sonoro che prende vita, una pennellata d’arpa dopo l’altra.
Ma poi, soprattutto, c’è il tempo interiore dell’album che è la cosa più importante e prescinde ogni altra considerazione esterna: Have One On Me è un vero e proprio kolossal, opus magnum della popular americana, uno zibaldone che racchiude in forma acronica più di cinquant’anni di musica, cosiddetta, leggera: dal prewar, folk celtico e appalachiano, a quello espanso modernista degli anni 60, dal Greenwich alla West-Coast, passando per il Mid-West, dal ragtime a Tin Pan Alley, dal cabaret pseudo-weilliano, al vaudeville per approdare al numero broadwayano via Van Dyke Parks. Certo, obietterà qualcuno, rispetto al predecessore lo stile s’è fatto più controllato, manierato, gli arrangiamenti seguono docili e obbedienti, mettendo in sordina ostinato e dissonanze, la voce di Joanna che, dal canto suo, rinuncia in massima parte a quelle tonalità bizzose, febbrili, infantili che l’hanno resa celebre per dare alla luce melodie più piane e piene, per quanto varie e immaginifiche, un concentrato di Laura Nyro, Joni Mitchell e Kate Bush. Un ritorno all’ordine? Lo spettro della classicità? No, quella della Newsom non è una semplice classicità ma una “iperclassicità” - cinematica, citazionista, trasversale, contaminata - in tutto e per tutto figlia del nostro tempo, un delicatissimo compromesso fra tradizione e modernismo, l’equivalente sonico di un’odisseico streaming joyciano trasposto nella lingua dell’ “età del romanzo americano”, the age of american (popular) music, in questo caso.
Per farla breve (un paradosso dato l’oggetto in analisi) e avere un’idea più precisa basta ascoltare la title-track, una suite teatrale per arpa e accompagnamento d’archi in cui c’è un po’ tutto il senso dell’opera: sorta di fantasia celtico-hobo-broadwayana, come un musical composto da una Incredible String Band sedata e femminilizzata.
O il trottante caravanserraglio di Good Intentions Paying Company: andatura country da Salvation Army, divagazioni quasi rag e cabaret fra Kurt Weill e la Carter Family. Altro che One, c’è di tutto e di più On Me e Joanna fa scintille ritagliando (iper)canzoni fra le più forbite, invitanti e artigianali della sua breve, ma, come ricordavamo, già significativa carriera: l’operetta porteriana di You and Me, Bess, quel suo inimitabile arpeggiare celtico intonato come se fosse un’ inquieta eroina tragicomica dell’opera cinese (Esme, ’81), l’incedere da romanza broadwayana di Autumn e Easy, grappoli di voluttuose mescite west-coast come In California (immaginate un pirandelliano duetto fra Joni Mitchell e Kate Bush recitato da una terza persona), nei melismi struggenti di Ribbon Bows, nella randagia e desolata Go Long. E perle che ripagano ampiamente la pazienza di chi ha varcato la soglia dell’empatia ed ha attraversato i tre dischetti fino a scoprire l’oro sotto l’architrave dell’arcobaleno: l’innodica, chiesastica, aurorale Baby Birch; Soft As Chalk coi suoi saliscendi ebbri e swinganti che sembrano gli antichi Jefferson Airplane suonati da Randy Newman mentre accompagna al piano una Grace sposa-bambina che fugge dall’altare ridacchiando e stracciandosi le vesti una dopo l’altra fino a restare completamente nuda; e, serbandoci il meglio da ultimo, No Provenance: una Judy Garland con le scarpette rosse interrate sotto la Dust Bowl che apre “Furore” di John Steinbeck. Semplicemente sublime.
La zarina del folk, la visionaria del pop, la musicista più dotata della sua generazione è tornata e porta con se una buona novella. Prendetevi tutto il tempo che vi occorre per ascoltarla.
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