Astral Brew
Red Soil
Non ci saranno più le mezze stagioni né si muoverà foglia che Stribog non voglia, eppure ancora oggi, inaugurato in pompa magna lalto Liquidoevo un lettore cd?!? Ma cosa te ne fai?!? , gruppi di ogni età ed estrazione sfuggono ai radar del grande cervello informatico e sembrano sgusciare fuori dal nulla. Nulla, in questo caso, è una radicale quanto educata copertura per mascherare goffamente lignoranza allannuncio del ritorno (nemmeno dellesordio: del ritorno!) degli Astral Brew. Che perfetti sconosciuti proprio non lo sono, a giudicare dai fitti curriculum in dote ai tre membri, un dedalo di esperienze di vita vissuta nei meandri della pulsante geografia dellunderground (tri)veneto Orfanado e Lettera 22 per il contralto e le tastiere di Riccardo Mazza (attivo anche in veste di manipolatore elettronico con lacronimo RM), A Flower Kollapsed per il basso di Michele DallArche, addirittura i Superlucertulas (prima versione dei più noti Lucertulas) per le pelli di Daniele De Vecchi.
Lineup agile e modernissima, dunque, addirittura e finalmente priva della chitarra elettrica che ancora campeggiava nel precedente I (2015), per uno pseudo-concept che sviluppa il canovaccio del viaggio astrale come metafora of the desire to escape the misery of contemporary life (cit.). Gente ispirata il FUP laiuta. Non inganni il passaggio italiano-inglese nella denominazione dei pezzi: non cè ombra di voce umana, né desiderio di postularla. Bastano e avanzano le trame strumentali: come quelle delliniziale Remote Horizonts, le cui stilettate afro à la Sons Of Kemet di Your Queen Is A Reptile si infrangono su un vigoroso break jazzcore, sul montare discreto e distinto di una ritmica alle prese con le evoluzioni astral bop del contralto di Mazza. O quelle della mesmerizzante head di Space Solitude, che sintetizza Sarajevo e Al-Batrāʾ come e meglio de La Piramide Di Sangue (anche se quel crescendo di basso della seconda metà, hmmm grunge lovers, anyone?). O, ancora, quelle della fiammata di Explicit Gesture, che oppone uno scorticante e marziale interplay basso-batteria qualcosa tra la no wave e il primo post-core a sequenze autoreplicanti di gargarismi colemaniani (con ogni probabilità, il momento più urticante del disco). Poi, naturalmente, il trucco sta nellaggirare le limitazioni imposte dalla struttura del power trio, giocando sulla variazione e sullaberrazione: ogni tanto si va ancora leggermente fuori fuoco (le spire avvolgenti del basso kraut di Next, che collegano lassalto abrasivo techno-oriented del primo troncone e il risveglio dub del finale, sono tirate un po per le lunghe), ma il malinconico afflato bandistico di Culture un Ayler digievoluto che abbia conosciuto il Laswell degli anni 90 e gli onirismi Sun Ra di Orbit infiammati, in coda, da uno schiumante crescendo hard-psych valgono ampiamente il prezzo del biglietto.
Ci si intenda: la vita continua ad essere il nemico numero uno. Ma affrontarla da questa prospettiva, se non altro, aiuta a metabolizzare la perpetua sconfitta. Tutta da gustare la prima edizione in 180 copie per Macina Dischi: 30 con serigrafie dorate (già esaurite), 30 argentate e 120 nere.
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