R Recensione

8/10

Barbez

Force Of Light

Poteri di un’immagine.

Amo l’autunno. Mi piace vedere come le giornate, pian piano, comincino ad accorciarsi, come le foglie mutino colore e si stacchino, un po’ per volta, dagli alberi, come dai tramonti si sprigionino cromatismi vivaci e sempre differenti, come poi le prime piogge sciacquino via l’espansività e le chiacchierate notturne dell’estate. E cosa può simboleggiare una luce giallastra, rifulgente, che risalta magnifica su un cielo color seppia, contornata da un’isba sul fondo, se non una fra le più classiche iconografie di un crepuscolo novembrino?

Radical Jewish Culture. È questo ciò che rappresentano i Barbez, visionario collettivo di undici elementi capitanato dal cantante e chitarrista Dan Kaufman. Un suono ricchissimo, molto stratificato, teatrale e vespertino: un ponte fra la tradizione ebraica, quella del folk e del klezmer, che si tuffa nel rock e nella psichedelia. A tal punto da annoverare, nel parco strumenti, un theremin, infernale aggeggio che, negli impastati fuzz Seventies, trovava molto spazio in funzione di catalizzatore, ipnotizzatore e distorsore. Con buona pace del grande Jimmy Page, suo principale avversatore. “Provoked by such musics as French musette, Argentine tango, post-war classical and pre-MTV punk, Barbez wrings these disparate worlds to form anew in the band's own soundscape”, scrivono loro, nella biografia ufficiale: appunto. Non è un caso se sono riuniti sotto il vessillo protettore della Tzadik, multiforme label di proprietà di John Zorn.

Arrivato nel 2007 alla terza prova con “Force Of Light” (c’è una spiegazione per tutto…) il supergruppo di Kaufman decide di cambiare rotta. Via i testi e le ballate struggenti, dentro afonie orchestrali dall’elevato minutaggio e frammenti lirici incentrati sulle opere dello scrittore romeno Paul Celan, qui letti con ottimo impatto narrativo/evocativo dalla poetessa scozzese Fiona Templeton (in alcuni frangenti estremamente vicina a Laurie Anderson). Otto pezzi di puro spettacolo sonoro. Radical Jewish Culture, no?

Force Of Light” è un disco che richiede estrema attenzione, non perché criptico o di difficile intelligibilità, bensì perché affascinante fino allo sfinimento. Ascoltarlo è come rivivere, in prima persona, l’ormai famosissima escursione di Van Gogh nel villaggio rurale belga di Zweeloo: tutto attira la nostra attenzione, anche i passaggi più elementari ci sembrano paradisiaci, ogni suono esprime una naturale proporzione con ciò che la circonda. Parte del merito va, sicuramente, all’orchestrazione, ricchissima: dai violini, che sembrano portarsi dietro decenni di tradizione rom, ad un’imponente sezione fiati, che si destreggia fra clarinetti, sax e trombe, fino addirittura a maiuscoli interventi esterni (il violoncello di Julia Kent), senza per questo dimenticare la consueta dotazione da power trio di chitarra, basso e batteria.

Subito dalla breve “Shibboleth” si comincia a peregrinare nel sole: chitarra acustica e poco altro, per una musica intesa come cammino di profonda introspezione e linguaggio universale che travalica le barriere razziali e linguistiche. “Aspen Tree” è una visione eliocentrica d’insieme, di quelle che sarebbero piaciute oltremodo ai belgi DAAU, dilatata oltremisura, che avanza sognante in una coltre di nebbia. Violini, xilofoni, flicorno e chitarre danzano gli uni sugli altri, come a voler dipingere sinestetiche distese paesaggistiche col solo ausilio del suono. I risultati sono ancora maggiori in “The Black Forest”, che trasporta i contrappunti ritmici gitani all’interno di un curioso ed acido ibrido jazz rock.

Altrove, invece, bastano pochi elementi per costruire splendidi viaggi. Tutto da ascoltare l’epico crescendo della title-track, affidato a violino e chitarra, con una sfilza di cambi di tempo degni del progressive anni ’70 (e che a tratti possono ricordare, bisogna essere sinceri, i momenti più etnici degli Sleepytime Gorilla Museum, specialmente quelli dell’ultimo periodo). “Sky Beetle”, posta in chiusura, sembra altresì il perfetto modello neoclassico inteso da Zorn, praticamente drone-ambient con pariglie klezmer di sicura suggestione notturna.

E, mentre scorre via l’intensissimo quarto d’ora di “Conversation In The Mountains”, sorta di pièce-tributo a Celan che raggiunge il suo culmine nel palpitante finale orchestrale, continua a sovvenire alla mente il sole. Anzi, quel sole. Quello della copertina. Ma è la musica che ispira le immagini, o le immagini che ispirano la musica? Radical Jewish Culture sì, ma con l’Est Europa nel cuore. Che la sua luce ci sbaragli.

Disco sofferto e bellissimo.

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target alle 19:30 del 9 dicembre 2008 ha scritto:

Grande Marco. "Aspen tree" è già da qualche mese tra i miei ascolti preferiti (bellissimo il modo in cui il pezzo a metà sembra addormentarsi, per poi scurirsi col flicorno: quasi come se il sole a tratti venisse coperto da un ostacolo), mentre il resto devo ancora approfondirlo. Ma lo farò presto. E grandi DAAU. Tra poco dovrebbero tornare anche loro. Questi Barbez, peraltro, vedo, saranno a gennaio a trieste.