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R Recensione

6/10

Bushman's Revenge

Jazz, Fritt Etter Hukommelsen

Siete fra gli spettatori – anzi, no: siete lo spettatore – di una galleria d’arte contemporanea, in penombra. Nel vostro campo visivo un’unica parete, di un bianco accecante (primo elemento perturbante). Arrivano, improvvisamente, tre spilungoni: non un cenno, non un sorriso, non un saluto. Al loro fianco, una lunga serie di latte di vernice (secondo elemento perturbante). Ex abrupto, ognuno ne afferra una e la scaraventa addosso al muro. Il bianco scompare a suon di schizzi: su di esso risaltano macchie rosse, blu, gialle, verdi (terzo elemento perturbante). Il lavoro procede a ritmi serrati, con quella grottesca meticolosità che viene sottesa ad un progetto comune. Alla fine si ha di fronte un’autentica, informe babele cromatica: le macerie di un Pollock apocrifo (quarto elemento perturbante). Ma ecco che compare una tela, inviolata: il trio – ammaccato, impolverato, sorridente – dà un taglio ai propri sconci e, con la tintura rimasta, si mette ad armeggiare, finché non salta fuori una perfetta, fedelissima riproduzione della Madonna del Cardellino (quinto, decisivo elemento perturbante).

Il jazz delle memorie dei Bushman’s Revenge ruota attorno – e si condensa in – due curiose cover: “Contemplation” di McCoy Tyner (da “The Real McCoy”, 1967) e “Angels” di Albert Ayler (da “Spirits Rejoice”, 1965). Assolutamente antitetiche le due rese. Nella prima, tre minuti più breve dell’originale la mancanza del pianoforte viene sublimata dal sinuoso basso di Rune Nergaard, un motore ritmico discreto ma onnipresente, la cui propulsione si inserisce tra le irrefrenabili trame solipsistiche della sei corde di Evan Helte Hermansen, capace di slanci lirici non comuni e strumento guida di ampie sezioni descrittive. Nella seconda (brano osticissimo da reinterpretare, va detto), che quei famigerati tre minuti li aggiunge, le liberissime trame di sax e clavicembalo dell’originale sono sostituite da un fluido, bluesy interplay tra basso e chitarra, uno scambio di battute reso accidentato dallo sconnesso accompagnamento di Gard Nilssen e dalla progressiva centralizzazione della sei corde, in un tantrico delirio che cerca di riprodurre, sotto acido, gli strozzamenti del tenore di Ayler.

Conobbi il power trio norvegese con il secondo disco del 2009, “You Lost Me At Hello” – la performance dissacrante, performativa di cui sopra. Ritrovarli oggi, sette anni dopo, con “Jazz, Fritt Etter Hukommelsen”, è confrontarsi con un gruppo totalmente rinnovato, i cui segnali di formalizzazione erano già evidenti in “A Little Bit Of Big Bonanza” (2012). Ogni brano, lungi dallo scottare o dal ferire, è un esercizio di stile su canovacci preimpostati. “0500” – dopo un’elaborata introduzione per solo basso – sgancia ben presto gli ormeggi, risolvendosi in una jam acida curiosamente sbilanciata verso primitive, circolari cellule melodiche di retaggio popolare (come, intelligentemente, faceva notare già Thom Jurek di AllMusic: lo stacco in levare a 6:51 vale più di mille parole). Il passo cadenzato di “Gamle Plata Til Arne” è piagato da una logorrea chitarristica che incrocia gli schemi dell’hard-jazz “aperto” dell’Hedvig Mollestad Trio con l’esibizionismo esteriore dei guitar heroes più molesti: una meravigliosa irrisolta, che in “Bo Marius” si trascina oltre ogni limite consentito, infiorettando di mille contrappunti un jazz modale cui, invece, avrebbe maggiormente giovato l’essenzialità della conclusiva “Lola Mit Dem Gorgonzola”, una soffusa ed affusolata melodia cool eseguita in punta di dita.

Il fatto è che, dopo lo spartiacque “Jitterbug” (2010), i Bushman’s Revenge sembrano aver perso la loro identità, traccheggiando fra uscite non indispensabili e buoni numeri annacquati in un oceano di maniera. Potevano essere la band di raccordo tra jazz e noise che la scena norvegese non ha ancora definitivamente consacrato: l’ossessione del vestito di sartoria li sta invece consegnando all’anonimato. Per chi ama le statistiche: “Jazz, Fritt Etter Hukommelsen”, successore del non esaltante “Thou Shalt Boogie!” (2013) ed uscito in contemporanea con l’incendiario live “Bushman’s Fire” (dove intervengono anche i prezzemolini David Wallumrød e Kjetil Møster), contiene, all’interno di “Gamle Plata Til Arne”, la primissima improvvisazione generata dal gruppo.

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