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R Recensione

7,5/10

Caterina Palazzi Sudoku Killer

Asperger

Perdersi nella musica di Caterina Palazzi, per parafrasare la traduzione di una recente e fortunata miscellanea lynchiana, è meraviglioso. Scatole cinesi, labirinti di specchi, realtà parallele e mind games: si comincia da una parte, ci si sposta da un’altra, si prende in mezzo un’altra ancora e alla fine, inconsapevolmente, è come se si fosse rimasti al punto di partenza. L’aspetto realmente interessante, in tutto questo, è che all’ascoltatore viene richiesto di partecipare fattivamente al proprio itinerario, di costruire in prima persona il proprio viaggio, la propria esperienza. È questa dicotomia oppositiva, tra attivo e passivo, che riflette un altro e più pervasivo antagonismo, quello fra “complesso” e “complicato”: due aggettivi che, pur essendo spesso utilizzati in maniera intercambiabile, intrattengono in verità un rapporto dialettico di mutua esclusione. Il primo aggettivo si riferisce a questioni di carattere espositivo e contenutistico (in altri tempi avremmo scritto “denso”, “polifonico”, “multistrato”), il secondo perlopiù a puntigli formali. Raramente ciò che è “complesso” è anche “complicato” – anzi, alcune tre le più ostiche avanguardie degli ultimi decenni hanno lavorato di fino sul concetto del less is more: per cui possiamo affermare che quanto è “complicato” può essere sicuramente concepito come “complesso”, ma senza alcuna costrizione necessitante. “Asperger” è il classico disco complesso, ma niente affatto complicato: quasi un adynaton, nel jazz contemporaneo, e per questo ancor più interessante.

Per il terzo lavoro studio dei suoi Sudoku Killer, a tre anni di distanza dal controverso “Infanticide”, la contrabbassista romana torna a fare quello che le riesce meglio: mescolare le carte in tavola. Primo step: fuori la voce free jazz di Antonio Raia (che ricompare nella sola “Maleficent”), dentro quella sanguigna della vecchia volpe Sergio Pomante (già nei Captain Mantell). Secondo step: cinque lunghe suite (come in “Infanticide”) comprensive di ghost track (come nell’esordio “Sudoku Killer”) ciascuna intitolata ad uno o più personaggi Disney. Non indispettisca il mancato riferimento alle sindromi psichiche. Nel disco precedente i pezzi prendevano retroattivamente il nome da giochi di logica giapponesi: qui, a latere, irrompe l’infanticidio o, per meglio dire, l’uccisione della parte infantile di certa iconografia animata, il trionfo del male (così che possiamo già intuire dove andrà a parare il quarto capitolo…).

Terzo e fondamentale step: la musica. Ora, ricomprendere con una sola etichetta la scrittura di Caterina è compito improbo, quando non addirittura impossibile: pur non essendo esattamente dei contenitori-zibaldone in cui succede tutto e il suo contrario, i brani di “Asperger” rimangono ugualmente piuttosto magmatici. Il sentore generale che se ne può ricavare, in ogni caso, è che si abbia di fronte un disco rock suonato con materiale jazz o, ancora meglio, con materiale ibrido, a cavallo tra rock e jazz (tale è stata la formazione musicale della frontwoman, che nei tardissimi ’90 fu chitarrista delle Barbie Killers: tale è ancora l’impronta caratteristica di Pomante). Sintomatiche, ad esempio, le distorsioni grunge della chitarra di Giacomo Ancillotto nella sezione centrale di “Grimilde”, una milonga westernata con lo scatenato sax di Pomante a fare il diavolo a quattro (notevoli anche le head di apertura e chiusura, un carico-scarico grandguignolesco), e lo sporco pencolare noir del riff portante di “Edgar The Butler” (un kolo color seppia che si materializza da una nebulosa noise: un effetto che si direbbe preso dal side project solista Zaleska). Quando poi, dalla malinconica stasi a singhiozzo dell’attacco di “Jasper & Horace”, prendono corpo spettrali visioni post rock – primo segmento di inquietante costruzione For Carnation, fase successiva di transfer à la Polvo, sintesi beffarda con uno swing tutto trilli e spine – le regole del gioco si chiariscono definitivamente.

Il riferimento precipuo a “fasi” e “segmenti” potrebbe far pensare ad “Asperger” come ad una raccolta palazziana di file cards, ma il raffronto – se un raffronto è così necessario – è piuttosto con la prima produzione dei Naked City o, svincolandosi dall’ingombrante ombra zorniana, con i newyorchesi Gutbucket. Qui, tuttavia, una sensibilità melodica tutta mediterranea, quand’anche umbratile e sbilenca, è sempre presente a mediare le istanze più aggressive: gli spaventosi scompensi impro di “Maleficent” arrivano solo a conclusione di un lungo paso doble dalle ambizioni sinfoniche e persino l’esplosivo incalzare jazzcore di “Medusa” – dedica ad personam agli Zu – si liquefa in una delicata trenodia che ricorda l’Orchestra In-Stabile Dis-Accordo (ticket ideale per il burnout di una ghost track dove archi, plettri ed ance disegnano un requiem blues di grande intensità).

Davvero una prova di grande, compiuta maturità. Stratificato senza mai rinunciare alla godibilità: “Asperger” è un ascolto obbligato.

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