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R Recensione

7/10

Dewa Budjana

Zentuary

Dewa Budjana è una star in Indonesia, dove da oltre un ventennio guida il gruppo pop rock Gigi, ma la sua ricerca musicale lo ha condotto da anni a condurre una parallela carriera in ambito jazz rock e fusion, che gli ha permesso di essere conosciuto ed apprezzato dai principali esponenti del genere in area occidentale, e collaborare, fra i tanti, con Peter Erskine, Antonio Sanchez e Larry Goldings. Nell’ultimo anno al piccolo chitarrista indonesiano sono successe tante cose brutte e belle. Tacendo delle prime, nella seconda categoria rientrano l’incontro con Pat Metheny, suo idolo ed ispiratore da sempre, un concerto, dal titolo Duaji & Guruji, condiviso con John McLaughlin (“colui che rappresenta la ragione del mio suonare la chitarra, - dice Dewa che, tanto per capirci, ha chiamato i suoi figli Mahavisnu Devananda e Shakti Davainanda) ed infine una serie di sessions registrate durante una sorta di giro del mondo propiziato dalla Moon June Records, nelle quali ha potuto mettere la sua arte di dolce compositore e multiforme chitarrista al servizio di una all star band formata dal batterista Jack De Johnette, dal bassista di crimsoniana fama Tony Levin e dal multistrumentista  Gary Husband, oltre ai sax di Tim Garland e Danny Markovich, alla chitarra di Guthrie Govan ed alle cantanti indonesiane Saat Syah e Ubiet e Risa Saraswati.

Il risultato di tutto ciò è “Zentuary”, e le premesse permettono di intuire come l’opera costituisca per Budjana una sorta di riepilogo e celebrazione di un’intera carriera costruita con l’intento di abbattere le barriere fra le diverse componenti del suo universo musicale, il jazz, il rock, la tradizione del suo paese, e valorizzare quel senso di narrazione melodico e facilmente comprensibile che caratterizza le sue composizioni. Lo si può immaginare, Dewa, felice come un bambino messo a contatto con i propri numi tutelari, mentre incide le dodici tracce di “Zentuary”, mai sotto i sette minuti (tranne il quadretto acustico della title track), per inviarle in giro per il mondo nella fase di costruzione del lavoro, dedicando la fusion ultra melodica di “Solar Pm” all’amato Pat, colorando di influssi etnici “Dancing Tears” e “Dedariku”, che ha singolari assonanze con il folk irlandese, o lanciandosi nelle sfrenate corse con la sei corde che caratterizzano il suo stile, un po’ Metheny, appunto, un po’ Larry Corryel. Se la prima parte dell’opera presenta alcuni episodi dai toni maggiormente ispirati alle apocalittiche atmosfere cremisi, probabile portato di Levin (la sfrenata corsa chitarristica e l’elettronica di “Lake Takengon”, “Suniakala”, aperta da un solo in stile frippertronics, “Dear Yulman”, dove il baffuto Tony si ritaglia un gustoso spazio solista), il secondo cd sembra riservato alla parte più gentile e leggiadra della tavolozza del musicista, con una “Manhattan Temple” che abbonda in cantabilità, “Ujung Galuh” altro omaggio non esplicito a Pat, esemplare per linearità melodica e sviluppo dei soli di sax e chitarra, e la lunga “Uncle Jack”, che, dopo una breve sezione free con De Johnette al pianoforte, espande il proprio tema in una lunga improvvisazione jazz dove piano e batteria dell’ospite sono indiscussi protagonisti.

Non tutto splende nelle due ore di “Zentuary”: talvolta, per chi frequenti il genere da anni, si affaccia una vaga sensazione di già sentito, e, in altri casi, la voglia di condensare tanti stimoli nell’arco di una traccia porta il risultato pericolosamente vicino a valori di overload. Complessivamente prevalgono però i meriti, e l’operazione può considerarsi un realistico ed autorevole biglietto da visita per la presentazione del chitarrista indonesiano al pubblico di tutto il mondo.

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