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R Recensione

7/10

Hedvig Mollestad Trio

Smells Funny

All’uscita del gagliardo e ottimamente accolto “Black Stabat Mater” si scatenò un dibattito (noooo, il dibattito noooo!) attorno all’esatta natura della sua composizione stilistica – della serie: se di nerdismo si deve morire, tanto vale andare sino in fondo. Che la musica suonata dal trio della giovane biondocrinita Hedvig Mollestad Thomassen fosse magnetica ed affascinante, tutti concordi: ma di quale musica si trattava esattamente? Rock, jazz, una mistura delle due, niente di tutto questo? Questione di lana caprina, liquideranno i più: argomentazione fondamentale, ribatterà invece chi sa cosa si nasconde dietro la Norvegia in note ed ha contezza del catalogo Rune Grammofon. Ripetuti ascolti allora non aiutarono a dissolvere i dubbi: a riprendere le fila del discorso intessuto da quel disco arriva oggi il suo diretto successore, “Smells Funny”, che permette di osservare più da vicino i meccanismi funzionali del trio norvegese.

Vari argomenti, secondo l’umile parere di chi sta battendo questa nota informativa, depongono a favore dell’ipotesi jazz: la disposizione di una frase portante ben costruita e immediatamente riconoscibile, l’improvvisazione collettiva che gioca sulle diramazioni armoniche del tema, un utilizzo estensivo di accordi e intervalli non direttamente riconducibile agli stilemi della “musica con le chitarre”. Questo, va detto, a dispetto di almeno tre fattori: l’assenza assoluta di fiati (quanto sarebbe intrigante sentire un Kjetil Møster o un Mats Gustafsson duettare su disco con Hedvig?), estese infiltrazioni heavy che pullulano lungo tutti i brani (raggiungendo l’apice nelle dinamiche doom dello strepitoso riff di “Bewitched, Dwarfed And Defeathered”) e un’apertura tra le più convenzionali del repertorio della band (il conservativo, assordante cosmic hard rock di “Beastie, Beastie”, dove confluiscono, in maniera più strutturata, alcuni degli spunti della vecchia “Approaching”). Il punto d’incontro più stimolante tra i due macrogeneri, nel mezzo della scaletta, è rappresentato da una narrativa “Jurášek”, scandita dal batterismo dentellato di Ivar Loe Bjørnstad e dai precisi rinterzi di basso di Ellen Brekken: la stessa Brekken si rende poi protagonista di alcune personali e gustose reinterpretazioni, come l’incalzante reticolato progressivo (sempre inginocchiato in direzione frippiana) su cui si squadernano le acide visioni virtuosistiche della Mollestad in “First Thing To Pop Is The Eye”, o i tonitruanti fiotti free form da cui prende forma il fulmineo fraseggio futuristico della conclusiva “Lucidness” (un vero e proprio lampo nel buio).

Fluidità, godibilità e riconoscibilità di scrittura rimangono inalterate rispetto alle prove precedenti, ma “Smells Funny” vi aggiunge una distinguibile cifra supplementare di tecnicismo, cui per contrappeso ovviano alcuni episodi di pronunciata ruvidità (oltre alla magistrale “Bewitched, Dwarfed And Defeathered”, da segnalare anche le progressioni in crescendo del riff di “Sugar Rush Mountain”). La bravura del trio, e della Mollestad in primis, sta nel far tornare ancora una volta i conti senza perdere il centro dell’equilibrio: impresa complessa ma, ancora una volta, pienamente riuscita.

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