Masada Quintet feat. Joe Lovano
Stolas: Book Of Angels Vol. 12
Certe volte, per capire qualcosa, occorre partire dalla fine, anziché sbrodolare un dubbio principio comprensivo di annessi e connessi conseguenti. Questa è una di quelle. L’avrete senz’altro capito, dal nome degli artisti qui coinvolti e dall’etichetta che ne distribuisce il disco: c’è lo zampino di John Zorn. Avete indovinato ma, senza andare ancora una volta a spiegare nel dettaglio cosa sia il progetto Book Of Angels, c’è anzitutto da dire che il Masada Quintet (ovvero, quattro quinti della vecchia Masada con l’aggiunta di Uri Caine al piano e di Joe Lovano al sassofono tenore) è una formazione mai testata prima e che, paradossalmente per musicisti così esperti e navigati, fa il suo esordio proprio con il dodicesimo capitolo del ricchissimo canzoniere composto, nel 2004, dal solito Zorn. Oggetto su cui scatenare le insaziabili fughe strumentali del gruppo, un altro protagonista della demonologia, l’inquietante uomo-corvo Stolas che, secondo il mito, donerebbe la conoscenza dell’astronomia, nonché di piante velenose e pietre preziose, a chiunque decida di venerare lui e le sue ventisei legioni (ah, quando si dice vendere l’anima al diavolo… non si sa mai con chi si potrebbe avere a che fare!).
La decisione di mettere assieme un nuovo complesso per realizzare questo volume – solitamente, ricordo, la collana veniva affidata ad artisti esterni, che musicavano le parti già per loro create – non è la sola stranezza che troveremo in “Stolas”: il sassofonista americano, infatti, decide di mettere mano personalmente al suo strumento e di intervenire in “Rahtiel”, ed alcuni dei nove pezzi erano già stati interpretati, a loro volta, da artisti partecipanti all’esecuzione della raccolta (ricordiamo, per citarne una, la splendida “Rigal”, che era già stata resa magistralmente dalla coppia Mark Feldman e Sylvie Courvoisier, in una struggente versione per piano e violino contenuta in “Malphas: Book Of Angels Vol. 3”). Carne al fuoco, insomma, pare essercene a volontà per non essere tentati, almeno una volta, di salire sulla giostra e fare un giro. Pagato da mastro Zorn, chiaramente.
Non c’è davvero pericolo di rimanere delusi, perché il Masada Quintet sembra una (bella) summa di tutte le influenze melodiche che hanno trovato posto nella produzione zorniana dell’ultima decade, FilmWorks ed Acoustic inclusi. L’affiatamento fra gli artisti e l’enorme esperienza maturata in anni di esplorazione musicale raggiunge picchi di incredibile densità, che si manifesta tanto nel leggero jazz d’apertura, quell’”Haamiah” che rivanga memorie – ed armonie – di metà anni ’90, quanto il klezmer più secco ed accentuato di “Serakel”, con il tenore a duettare con la tromba di Dave Douglas in un’alchimia che non si rivelava tale da oramai troppo tempo, o il tappeto pianistico ricamato da Caine su una “Tashriel” essenziale ma, tutto sommato, incantevole. Proprio il pianista è spesso fondamentale nell’avanzare dei pezzi: i malinconici fiati di “Rikbiel” non sarebbero altrettanto affascinanti, se non fossero accompagnati da un martellante contraltare esotico, e “Sartael”, un’esplosione free che mette d’accordo Ornette Coleman e Chet Baker.
E l’intervento del grande regista? Non per campanilismo, ma “Rahtiel” si rivela essere proprio il fulcro del disco: uno struggente jazz imbevuto nella chanson francese e negli immaginari di Brassens, pieno di un romanticismo che prima viene cullato dolcemente dal doppio sax e poi, come di consueto, stuprato brutalmente dalle epilessie del contralto di Zorn. È, questo, l’unico effettivo punto di contatto fra i due mondi del compositore, l’accademico (che ritorna, con uno stile impareggiabile, anche nella sopraccitata “Rigal”, allungata di quasi sei minuti e resa magica dall’impianto stesso del gruppo) e il dark, per un lavoro che seduce, incanta e magnetizza come solo la chiaroscurale dolcezza di casa Masada sa fare. Oserei, tuttavia, dire, che fra tutti i performer che si sono misurati con le composizioni di John, i cinque sono fra quelli che più escono a testa alta, proprio per la loro capacità non solo di adattamento alla nota, ma di reinterpretazione fuori dal comune.
Consigliato a tutti.
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