Morphine
Cure For Pain
Questo che andrete a leggere, signori, è un atto damore. Daccordo: non cè la bolla imperiale col sigillo di ceralacca impresso sul fondo, non sono state emanate grida di nessun tipo e nella storiografia dun domani non sarà citato, in alcuna sommaria crestomazia. Eppure il cuore mi ha spinto ad impugnare la penna e a rivendicare una giustizia totalitaria per un gruppo come i Morphine che, totalmente estranei al passare delle ere musicali, anacronistici pionieri e futuristici dinosauri, immuni allo sgretolamento delle mode e perpetuamente diversi a sé stessi, non lhanno veramente mai avuta. Non mi piace il ruolo di vendicatore, credo che il valore effettivo di un gruppo, seppure sottovalutato dai contemporanei, esca sulla lunga distanza. Qui si è di fronte, però, ad un grave errore di valutazione che necessita, se non di una risoluzione, almeno di un chiarimento. Se non ne siete interessati, sfogliate oltre.
Nella visione dei più, i Morphine sono quelli che accompagnano laccelerata dai centottanta ai duevventi di uno dei Verdone migliori di sempre: cantante e bassista come una delle canzoni più famose dei Metallica (uomo di sabbia?) e lampo di gloria arrivato solo in punto di tragedia, con il tenebroso Mark (da un Lanegan ad un Sandman, la radice è sempre quella) beffato dalla Moira e da un bastardo aneurisma sul freddo palco di Palestrina. Celebrazione post mortem durata il tempo di un frettoloso ricordo, poi di nuovo assordante tenebra. Cest la vie, ma è una tendenza che, discografia alla mano, devessere assolutamente invertita. Tutto ciò che dovete/dovreste sapere sul trio americano gravita attorno ad un terzetto, rilasciato con metodica cadenza: Good, 1992, Cure For Pain, 1993, Yes, 1995. Dei tre, fra un esordio marcatamente distorto ed una coda selvaggia, erotica e peccaminosa, Cure For Pain rappresenta il risvolto lenitivo, rilassante, spirituale, non privo di impennate ma, sui generis, volto ad una serenità compositiva che naufraga in liquide pozze di sottile psichedelia jazzata, leggermente sporcata dai torridi groove intrecciati da basso e sax. Balsamo salmodiante per mente e spirito, il disco manifesta come la capacità di scrittura di Sandman raggiungesse, nel pieno fervore creativo di quel lustro, un marchio fortemente caratteristico, che si giostrava sui soliti, essenziali elementi ma sapeva, ciò nonostante, mettersi in gioco sfruttando poliritmie e compresenze stilistiche. Jazz, rock, rnb, o più semplicemente il suono.
La morfina, tranquillante ed analgesica appunto in piccole dosi, rischia di paralizzare se assunta in grandi quantità: Cure For Pain, per diretta conseguenza, è il lavoro del gruppo che arriva più vicino a corteggiare la canonica canzone, stretta in tempi che non vanno mai sopra i quattro minuti ma di volta in volta ancheggiante, swingata, terremotante, introspettiva. Una raccolta di pezzi su quanto sia bello lempireo e quanto agevole possa essere accedervi, preferibilmente via fisica, nellestasi dei sensi e nella complessità della tessitura dei rapporti interpersonali: la voce di Sandman plasma inequivocabilmente il mood dei brani, rendendoli afrodisiaci o liturgici con appena unemissione di fiato e spedendo imperiosamente la strumentazione a legarsi attorno. Similmente ad un atomo, però, il nucleo è attorniato da pulsanti nubi ellittiche di protoni ed elettroni tuttaltro che secondarie, in questo caso la sezione ritmica e di fiati, condotta su andature mid-lente dallo squilibrio sottile e pronte a strabordare, seppure qui meno che sul resto, in profondi solchi oscuri, che grondano di sudore, peccato e vizio.
Il sax levitante di Dawna, così come quello dellemblematica Miles Davis Funeral, sospeso in aria come trance cinematica, prende fuoco in Buena, caricando un basso che risponde presente e muggisce il suo nero tramestio. All Wrong è dinamite con propaggini al limite della Stax, che salassa Im Free Now, grido di libertà amorevolmente cullato, tra corde ed ance, in una pigra bolla blueseggiante. Thursday è tesissima e tribale, potente jazz-rock sabbathiano ed ammaliante che non riesce, tuttavia, a contaminare la candida purezza di una In Spite Of Me con mandolino semplicemente celestiale, suonando i tasti dellanima a tempo dellindiavolato swing di Mary Wont You Call My Name?. Si sta, però, sbagliando metodo: il catalogo infinito di giudizi spocchiosi e merlettati, abbandonato a sé nella recensione lo dico per esperienza personale raramente stuzzica il desiderio di terzi. Invece di dare uno sguardo ad un insieme granitico ed inappuntabile, allora, si andrà a focalizzare lattenzione su passi che svettano, per bellezza e ispirazione, frammezzo agli altri. Quale, dunque, linno, il brano rappresentativo, lelegia, linsegna?
Quando attacca la title-track, a citarne una, mi domando, con un pizzico di presunzione ed un altro di superbia, come i Morphine non siano ancora universalmente annoverati tra i grandi del rock del 900. Psichedelizia del tutto atarassica, genialmente disciolta in soluzione vagamente slow-core, che si concede pure di spezzare il ritmo, giusto un po sfumato, con un incontenibile assolo di sax. Che ne pensa Mark? Where is the cave/ Where the wise woman went/ And tell me where/ Where's all that money that I spent/ I propose a toast to my self control/ You see it crawling helpless on the floor/ Someday there'll be a cure for pain Incorreggibile, come sempre. Eppure i demoni personali non riescono a tornarsene giù: le unghiate di Sheila si affilano su contraccolpi devastanti, narrando una storia di sadomasochismo impossibile da fraintendere (Sheila has a cat, she pets the cat/ puts a spell on the cat/ she runs her fingers down his back/ cause Sheila has a cat, puts a spell on the cat/ looks him in the eyes, makes him reply/ Sheila, Sheila), laddove poi Lets Take A Trip Together è un menage libidinoso consumato allombra di un privè avvolto da tempeste di fumo non meglio specificato e A Head With Wings si sporge con una serie di paraste che giganteggiano addirittura sul free jazz. .
Nessun proverbio, nessun accenno ad aneddoti, nessuna frase gloriosa al momento giusto. O forse sì? Grazie Palestrina. È una serata bellissima, è bello stare qui e voglio dedicarvi una canzone super-sexy. Mark Sandman non voleva morire ma, allevidenza del fato, lo fece come avrebbe sempre desiderato. Anche per questo, indecisi se sorridere davanti alle preziosissime testimonianze lasciateci, oppure scoppiare in pianto dirotto comprendendo che più nessuna incisione si affiancherà alle compagne, scegliamo di commemorare la grandezza dei Morphine che, prima ancora di musicisti, di rockstar, di impenitenti lussuriosi, si sono meritati letichetta di uomini, a tutto tondo. Probabilmente, al bassista, sarebbe anche piaciuto.
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