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7,5/10

Nohaybandatrio

Nohaybandatrio

“Marco, la prima volta che vedi Roma non puoi fare altro che stropicciarti gli occhi, perché quello che ti trovi di fronte non è semplicemente una città, e neanche una città bellissima. In realtà, ti trovi a camminare lungo la storia, puoi toccare con mano un museo a cielo aperto, una vastità di idee e di pulsazioni che ti stordisce nel migliore dei modi possibili.

Roma non è parte della storia ma è la storia, un caleidoscopio di esperienze, immagini, epoche e culture senza eguali, che tu viva a due passi da piazza del Vaticano oppure in un umile bed&breakfast della Garbatella (perché anche fra le sue pareti in cartongesso leggi ben chiari i segni di qualcosa di più grande; l'ho capito quando ci ho dormito alcuni mesi fa, anche se al piano di sopra una coppia di pazzi non faceva che litigare, e fuori il chiasso del mercato ti svegliava prima delle sei del mattino: ero a Roma, cazzo, del resto non importava nulla!).

Forse allora è naturale che i musicisti romani tendano ad abbracciare un'infinità di storie e di esperienze, che provino a ridisegnare sul pentagramma le infinite sfaccettature di ciò che gli si para davanti agli occhi ogni giorno. Forse mi spingo troppo in là con l'immaginazione e va bene, ma questa arzigogolata ricostruzione è l'unico strumento che mi consente di ricollegare la debordante fantasia dei romanissimi Nohaybandatrio con la città che li ha visti nascere.

Perché sembra di vedere due facce della stessa medaglia: Roma è mitologica, ma anche con il trio si ha la sensazione di perdersi, di trovarsi davanti qualcosa di enorme, qualcosa che sembra scavalcare i limiti della nostra comprensione e che invece piano piano prende forma e colore fino a lasciarci di stucco, come e più di prima.

I Nohaybandatrio sono un gruppo jazzcore, si dice (o anche math rock, i nomi si sprecano, avete colto il concetto di fondo: musica complessa e contorta, figlia dell'hardcore ma capace di assorbire molte realità diverse e più concettuali).

E il jazzcore non è una novità, esiste forse da due decenni (ma, volendo travestirsi da pignoli, come potremmo altrimenti definire alcuni schizzi dei Minutemen?), e anche in Italia vanta nomi illustri, articoli di lusso: gli Zu spadroneggiano da tempo e non sono i soli - è doveroso citare quantomeno gli Squartet.

Ciò non toglie che la proposta dei romani abbia indossato un mantello alato e quindi messo nel mirino orizzonti nuovi e più vasti, quasi la band fosse l'asintoto del jazzcore e rifiutasse schemi troppo rigidi, amalgamando spunti di natura radicalmente diversa, forse anche un po' contraddittoria.

Prima di tutto, questi sono in tre e suonano sei strumenti (ma a volte sembrano cento), il che già rischia di disorientarti parecchio.

Ma il “problema” non si trova tanto nei numeri, e sta invece nel modo in cui questi strumenti si muovono: c'è un basso che frantuma tempi dispari e variazioni armoniche a forza di deflagrazioni funk, c'è una chitarra (e la suona lo stesso musicista, Fabio Recchia!) che decostruisce e razionalizza le provocazioni più ardite del jazz – uragani di accordi stampati su tempi impossibili - quasi incontrassimo la versione robotica-berlinese di Charlie Christian.

C'è quindi un sassofono onnisciente e più che degno di fare a botte con i nomi più importanti del mondo: si presenta caldo e dolce come nella tradizione più intransigente di certo swing, quindi è d'improvviso capace di compattare dentro tempi hardcore le imprese più radicali di Pharoah Sanders, quando non di Archie Shepp. Tutto questo, mentre strizza l'occhio all'avanguardia più brutale e visionaria, creando rumori abrasivi neanche fosse un Christian Fennesz prestato agli strumenti a fiato. E mentre brandelli luminosi di live electronics rendono il quadro ancor più delirante.

Che dire poi delle percussioni (batteria+barattoli vari)? Aggressive come nella migliore dance, brutalmente “quadrate”, eppure astratte e inafferrabili, quasi avessimo a che fare con dei Drive Like Jehu innamorati persi del jazz d'avanguardia.

Non riesco a trovare l'etichetta giusta, Marco: post-tutto, un'attitudine punk che massacra di pugni lo schermo protettivo del progressive, fiati sornioni e mitragliate di ritmi spezzati. Questi coatti ti costringono a cercare nel vocabolario parole nuove, e per me sono un crack clamoroso, dato che non li conoscevo per nulla. Tu cosa ne pensi?”

Silencio… No hay banda. Di una cosa sono sicuro, Francesco: se le tue orazioni forensi avessero potuto riecheggiare tra le gradinate del senatus romano, avresti già allora potuto avvertire sentori di questo disco. Della sua forza belluina, della sua veracità (o voracità) soleggiata, della sua incredibile intelligenza tattica. Un grande progetto nasconde, quasi sempre, qualcosa di terribile alle sue spalle. In onore dell’immane Domus Aurea, Nerone non ci pensò due volte a scottarsi con i tizzoni, per radere al suolo i fatiscenti casermoni in legno eretti, e mal sistemati, dal Berlusconi imperiale Crasso. Quali foschie ottenebrassero i suoi pensieri non ci è dato saperlo, ma un incavo per Nohaybandatrio, quello sì, aprioristicamente, avrebbe potuto esserci.

Scivola via come un atto teatrale, questo terzo disco omonimo del terzetto romano, come una di quelle commedie farsesche che il princeps si dilettava a scrivere, ma per cui era irrimediabilmente, inconfutabilmente negato. E prima di portare al riso, sboccato magari, irriverente, liberatorio, la commedia si tinge di tragedia, di farsa, indurisce i toni ed ispessisce le situazioni. Quando il preludio acustico esplode nella ritmica math di “Harpya”, basso e batteria a spaccare i quarti con potenza indicibile ed il sassofono a tratteggiare romanticismo pulp come, quattordici anni fa, gli Zu cabarettistici di “Bromio”, pare che nulla possa fermare il meccanismo. Invece no: il brano scompare, traccia solchi sotterranei, entra in apnea melodica Art Pepper ed erompe in superficie, gradualmente, di nuovo, arrivando a tallonare da vicino il respiro epico del brano “rock”. Un caso? Al contrario.

Lemmings!” pizzica di prepotenza con le geometrie, rievocando i Botch in serrati tapping sparati su tele jazzate e vomitando una colata di wah incendiari su tempi dispari. “Led Zep” avanza quadrata e fantasiosa, facendo schiantare il Plant di “Whole Lotta Love” addosso a una serratissima torcida infittita di arpeggi, avvoltolata in uno scheletro noise, demolita da un assolo che è esaltazione pirotecnica e trionfo di groove funk. Il vento smette di spirare assassino sull’Urbe solo in occasione di una “Ballad” che è pausa riflessiva, meditazione espressiva interamente demandata alla straordinaria tecnica strumentale dei musicisti, raffinato e liquido jazz rock dilatato dagli armonici. Tempo di risistemare il mantice dell’ambizione, e gelidi infuriano il Mediterraneo in tempesta di “HC” (nomen omen…) ed il delirio cyber-core di “Mr. Bedeker”, sfregio elettronico dove il basso di Massimo Pupillo attacca industrial e boccheggia pesantemente sludge. Roma usta est. Il sipario della rappresentazione di Nerone, paradossalmente ma non imprevedibilmente, cala circolarmente sull’arrangiamento da sera che Enrico Gabrielli fa indossare all’ultima cena del foro imperiale, un sontuoso “Banchetto Di Nozze” che si scarnifica e alla fine, solo alla fine, raggiunge l’orgiastico, felliniano sovraccarico armonico.”

“Eh Marco, non posso dire che ti manchi l'immaginazione, hai vivisezionato ogni creazione e l'hai fatto bene. Come possiamo concludere, adesso? Cosa possiamo dire per convincere qualche disperato a concedere una chance ad un trio così chiassoso, incendiario, ad un trio che ha imprigionato con la ragione, o meglio con la propria visionaria intelligenza, il proprio istinto furioso?”

"Che se per voi Nerone ai convitti suonava contemporaneamente chitarra e basso, allora è probabile fosse un fan dei Nohaybandatrio".

 

 

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