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R Recensione

8/10

The Drift

Blue Hour

L’ora blu è il tempo del rimpianto, della lacrima, il crepuscolo della giornata in cui il sole declina, ingigantisce i paesaggi e si confonde con le ombre. Un momento istantaneo, in cui la percezione si altera naturalmente e la visione per schemi lascia il posto a frammenti intuitivi, associazioni per immagini. I Drift conoscono bene questo stato d’animo. Lo hanno assaggiato e lo assaporano tuttora. Ci convivono, da tempo, elbow to elbow. Chiunque sia mai entrato, in prima persona, nelle dinamiche di un gruppo, può anche solo immaginare cosa significhi perdere, all’improvviso, qualcuno che è compagno, sostegno, amico, mente sottile e brillante. È un tormento che deve scavare dentro, mettere con le spalle al muro e costringere – alla stregua di un video dei Tool, paragone assolutamente improprio ma efficace – a sezionare la propria persona, estrarre dalle proprie più profonde viscere ogni grammo di forza e convinzione per superare l’ostacolo ed andare avanti.

Ciò che non uccide, fortifica. Scordatevi i Drift di “Memory Drawings”, quartetto sparpagliato tra ascesi post rock, sublime eleganza jazzy ed escrescenze di psichedelico minimalismo da acido: sono cessati di esistere. Perché cessato di esistere, improvvisamente, è stato il loro principale motore, il trombettista Jeff Jacobs – a suo tempo lungamente elogiato su queste pagine –, vittima di uno spietato cancro agli inizi dell’anno. Non si tratta di giustificazionismo: una batosta del genere porrebbe fine a qualsiasi tipo di band. L’incrollabile determinazione dei musicisti di San Francisco, ora ridottisi per necessità ad un essenziale power trio chitarra-basso-batteria, è il primo fattore che, in modo del tutto spontaneo, fa sgorgare un impeto di sincera ammirazione. “His spirit is undeniably present throughout the album”, è l’unica dichiarazione rilasciata in merito sul sito dell’etichetta, la Temporary Residence.

Non dubitiamo che il vivido ricordo di Jacobs abbia massicciamente contribuito a plasmare il nuovo corso del gruppo. “Blue Hour” è, prima di tutto, un disco potente, incredibilmente potente. Una fisicità che non si esplicita solo nelle ruvidezze di alcune trame, peraltro impensabili tenendo a mente gli standard dei dischi precedenti, ma che si coagula in uno strano ed intensissimo grumo di emozionalità contrastata, di sentimenti opposti che vivificano all’interno dei brani e ne dilaniano la struttura interna, con la loro lotta feroce ed inesorabile. Proprio per questo motivo, “Blue Hour” possiede una stoffa sicuramente poetica: una poesia acuta, decadente, a tratti molto oscura, struggente per larghe tratte. Delle lievi melodie intessute nei capitoli precedenti, infiocchettate dalla competenza tecnica tipo dell’accademico e a tratti portate all’esasperazione, grazie ai selvaggi trucchi tonali dell’acid jazz, rimane una traccia solo in “Hello From Everywhere”, malinconica nenia in sfumare per chitarra e diamonica che sfiora i languori di “I Had A List And I Lost It”.

Un’immersione totale negli abissi. Quanto i Drift siano stati capaci di assorbire il colpo e stravolgere ogni certezza precostituita apparirà chiaro al prendere in esame il capo e la coda dell’album. La bolla di ossigeno bruciante è “Dark Passage”, che viene speronata dagli spigoli aguzzi di una galoppante sezione ritmica, mentre la sei corde di Danny Paul Grody lacera i tessuti, li avvoltola in manti di riverberi e ricomincia a crescere, spargendo sale sulle ferite. “Fountains”, invece, è un episodio prettamente classico, dodici minuti di post rock ambientale vecchia scuola con chiosa neoclassica alla Eluvium che, tuttavia, recuperano integralmente lo scarno ed incisivo impatto emotivo degli esordi, come se il tempo e le progressive annacquature non fossero veramente mai passati. Sono i piccoli dettagli che rendono conto delle dimensioni morali dell’insieme: l’attaccamento alla propria musica assume dimensioni straordinarie.

D’altro canto, bene metterlo in evidenza, se c’è un difetto che mai una volta viene imputato a “Blue Hour” è la mancanza di onestà, e non si vede perché dovrebbe essere altrimenti. Fatti sapientemente precedere da due intermezzi di teso, composto minimalismo (“Bardo I” più etereo, “Bardo II” liturgico e chiesastico) arrivano i veri capolavori del disco. Attacca il basso di “Horizon” e, solo per un istante, la sensazione di essere trasposti a peso nell’immaginario poliziottesco del prog-funk all’italiana si materializza tangibile, salvo poi sgretolarsi dentro le spire di un quadratissimo jazz-rock rivestito di escoriazioni noise. “Continuum” riprende, in parte, il canovaccio dell’immortale “Uncanny Valley” e fa riecheggiare gli arpeggi zen degli Yakuza, suonati quasi come in apnea, in un devastante groviglio di tenebre slow-core, che cominciano a schiudersi in lontananza proprio quando il buio sembra sommergere l’intero brano, lasciando la sola batteria a pestare sul nulla, in solitudine. Rimangono gli scheletri di un’odissea in frantumi, la lenta decostruzione slintiana trascinata nella polvere e disarticolata da ghignanti swing (“The Skull Hand Smiles / May You Fare Well”).

Una band inossidabile, impenetrabile ai dolori ed alle sciagure, capace di rinascere dalle proprie ceneri. “Blue Hour” dei Drift è l’incontrovertibile incarnazione della musica che, purificando, fa male. Dentro.

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Voto degli utenti: 6,3/10 in media su 3 voti.
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FrancescoB alle 10:11 del 2 gennaio 2012 ha scritto:

Disco notevole ed a tratti emozionante. Post-rock con le palle che non si perde nell'onanismo.