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R Recensione

5,5/10

The Messthetics

Anthropocosmic Nest

Tema di un recente topic del nostro forum era uno dei soliti giochini cari a noi sognatori perditempo: individuare un periodo storico che fosse più fedele degli altri nell’incarnare ciò che maggiormente ci attrae (o, in alternativa, quello con cui maggiormente ci identifichiamo) della musica che ascoltiamo. Per quanto la scelta sia difficile – ogni epoca, salvo straordinarie eccezioni, presenta dei motivi d’attrattiva irrinunciabili che contribuiscono a formare ciò che siamo – messo con le spalle al muro indicherei gli anni ’90, isolando due ragioni fondamentali e complementari. La prima: è il decennio in cui le intuizioni più intriganti del tardo hardcore ottantiano sbocciano in una serie di nuove e compiute forme estetiche (per citarne alcune: il primo post rock, il post-core, il math rock, il jazzcore) la cui influenza si dimostrerà incalcolabile sui decenni a seguire. La seconda: è, forse, il decennio in cui si concentrano i migliori e più toccanti costrutti melodici del rock indipendente (l’etichetta sussume, per discutibili ragioni di praticità, tanto le svariate pratiche indie rock quanto il diarismo del Midwest emo).

Sebbene non sia dato vivere di sola nostalgia, nel perimetro del discorso qui intavolato una band come i Messthetics risultava funzionale alla causa: la sezione ritmica dei furono Fugazi (il basso di Joe Lally, la batteria di Brendan Canty) abbinata all’estro strumentale del virtuoso della sei corde Anthony Pirog, in un delicato bilanciamento di opposti che, quasi sempre, riusciva a trovare la quadra – forse perché gli apparenti estremi sono due facce della medesima medaglia? Così il bell’esordio omonimo dell’anno scorso, sospeso tra emozionali cerebralità e raffinatezze jazzistiche: così, a distanza ravvicinata, le aspettative ipotecate sul più corposo sophomoreAnthropocosmic Nest”, il cui processo di gestazione è stato caratterizzato da una naturalezza in parte restituita dalla registrazione in presa diretta. Speranze in parte deluse in quanto, nonostante il riferimento del titolo alle teorie antropocosmiche di Valerij Sagatovskij suggerisca un ideale di equilibrio unitario ancor più pronunciato che nel recente passato, il materiale su cui sciabolano e infiorettano i tre americani è questa volta assai meno entusiasmante.

L’elaborata narrativa di “The Messthetics” si sviluppa coerentemente in tre episodi di questa scaletta. Autocentrata su di un quadrilatero armonico che si biforca in decine di diramazioni funky, “Pacifica” possiede il respiro denso e assieme urticante di un jazz rock crimsoniano sintetizzato in un formato canzone tipicamente post punk (il basso di Lalli non può mentire). “Because The Mountain Says So” possiede il nitore melodico dei Karate e la cogitabonda andatura dei For Carnation (con un assolo chitarristico in vaga direzione prog, perché, ancora una volta, tout se tient). “Touch Earth Touch Sky”, infine, è uno slowcore estatico dai rovesci shoegaze, che col passare dei minuti si sclerotizza in ispessimenti noise-doom degni degli Psychic Paramount. Descritto in questi termini sembrerebbe il disco ideale, ma la verità è che il paradiso non esiste (men che meno in terra) e “Anthropocosmic Nest” perde troppo spesso di vista il songwriting per concentrarsi sull’esaltazione delle capacità tecniche del trio. Già il solipsismo chitarristico senza fine in cui annega il bel riff slacker di “Better Wings” fa intuire l’andazzo: il difetto di iperesposizione si ripresenta poi con ciclica periodicità, producendo sterili sbrodolate da chitarra jazz (“Pay Dust”), depotenziando l’impatto selvaggio di sciabolate geometriche tese come pelli di tamburi (il math-punk claudicante di “Drop Foot”) e inquinando la resa materica di alcune felici intuizioni (i fraseggi convulsi di basso che appesantiscono le evocazioni seppia degli astrattismi post rock di “Section 9”), sino ad arrivare ad un passo dall’omaggio ai panismi latineggianti del Marc Ribot formato Los Cubanos Postizos (“La Lontra” è un buon pezzo, ma completamente fuori contesto).

La delusione, per quanto si cerchi di ridimensionarla distribuendo gli ascolti su un lasso di tempo prolungato, rimane pervasiva. “Anthropocosmic Nest” suona esattamente come l’output di un peccato di autocompiacimento inaspettato e ingestibile: non proprio i termini che avremmo voluto impiegare per la seconda uscita lunga dei Messthetics.

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