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R Recensione

6,5/10

Tortoise

The Catastrophist

Un Escher d’annata presuppone radicata illogicità nella complessità. Si coglie a colpo d’occhio la presenza di una profonda irregolarità, ma se ne distingue la natura solo dopo aver isolato, dalla matassa, singoli elementi perturbanti: come disgiungere l’elemento fisico dello sparo dalla sua propagazione acustica, il danno diretto e posteriore di un colpo. È perlomeno curioso che siano proprio i Tortoise a reclamarne idealmente l’eredità, giacché la loro musica – pur nei tratti essenziali di equiscomponibilità e superiore meditazione armonica – non può davvero definirsi grottesca, né tantomeno irrealizzabile. Tutta la loro carriera sta a testimoniare che è il modo innovativo con cui si cominciarono a miscelare addendi già perfettamente noti ad aver costituito la portata rivoluzionaria di “Tortoise” e “Millions Now Living Will Never Die”: un metodo freddo, razionale e raziocinante ad un tempo, tenuto imbrigliato e sotto controllo dai primi attimi della sua genesi alle ultime scintille di vita propria.

L’impossibile Frankenstein (il vero 21st century schizoid man?) sbattuto sulla copertina del loro lavoro più pulito ed accessibile di sempre, poi! Sembra quasi che “The Catastrophist” la voglia mettere giù contrastata – e indifferenziata – a partire da un mero piano semiotico: suggerire una disarmonia surrealista che non c’è, creare e montare aspettative ad hoc che non verranno mai soddisfatte. Sta forse nel riassestarsi di questa comunicazione metatestuale il punto di forza di un disco che, se non fosse stato per l’insistenza della municipalità di Chicago, avrebbe potuto non essere mai scritto – già il precedente “Beacons Of Ancestorship” era giunto imprevisto, come dono dal cielo. Molte cose sono cambiate, in sette anni, e lo status dei Tortoise, similarmente ad altri compagni di viaggio degli anni ’90, sta scivolando a velocità crescente verso il semplice sillogismo di idolatria (hanno fatto questo e quello: pochi idoli hanno fatto questo e quello; ecco che possono entrare nel pantheon). “The Catastrophist” si propone allora, in secondo luogo, di rompere la catena dell’immobilismo nel presente che la consacrazione alla storia fatalmente genera: la band esiste qui ed ora, ancora dotata di questi mezzi.

Di quali mezzi, vi chiederete? Per fare un passo avanti bisogna, anzitutto, farne uno indietro, tornare sui luoghi del crimine di cui molto si è parlato e perdersi, dolcemente, in serratissimi frattali synth-prog (“Gesceap”). Da qui in avanti, tutto è permesso. A smembrare un brano come “Rock On”, con il piglio dissacrante del maniaco seriale e la voracità retrospettiva dell’etimologo, ci hanno provato in tanti: ma rendere il drogatissimo David Essex dell’originale uno strampalato cyborg funk (con la voce di Todd Rittmann degli U.S. Maple) non è alla portata di tutti. In “Yonder Blue” un’altra ugola, quella incerta e splendida di Georgia Hubley degli Yo La Tengo, rompe i confini spaziotemporali del teorema che vedeva i Tortoise allergici all’elemento vocale: è una detonazione soffice e straniante, come se un singolo paisley underground finisse schedato in una discografia library. In “At Odds With Logic”, riverberi accecanti saturano il vuoto assoluto individuato dalla ritmica di Doug McCombs (taglio assai particolare, riuscitissimo), prima che un fuzz primordiale sommerga tutto: “The Clearing Fills”, contemplativa strumentale jazz sorretta, con gran gusto e discrezione, da un metronomico beat elettronico, sceglie di esplorare l’altro lato del silenzio.

In questa distinta enumerazione si colgono parimenti attrattiva e fragilità di “The Catastrophist”: instillare la cerebralità in un’eterogeneità, se possibile, ancor più voluta e pronunciata di quella di “Beacons Of Ancestorship”. Non è troppo astruso, forse, il richiamo all’uomo componibile: ogni brano proietta la propria ombra sul mattone in dote, futuro collante dell’intero edificio. Polifonia, allora, terza importantissima funzione, variabile che salva dallo scontro frontale le giustapposizioni bandistiche nel post rock sintetico della title track e la fusion mutante di “Ox Duke”, la dinoccolata cassa dritta dello space funk di “Hot Coffee” e le durezze chitarristiche (rasentanti, a tratti, un’epicità fuori luogo) che infiorettano le atonalità manifeste di cui è infarcita “Shake Hands With Danger”. Crescono i piani su cui si dispongono le contrapposizioni, dando vita ad un sistema a tratti sinceramente stucchevole (“Tesseract”), ma ancora ricco di slancio e dinamismo.

Il quadro generale di “The Catastrophist”, nonostante la smaccata fruibilità di ogni singolo passaggio, appare piuttosto complesso nell’insieme: nient’altro che la marca Tortoise nuovamente allo scoperto.

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robi alle 16:39 del 23 agosto 2016 ha scritto:

tanti anni fa uscì una rivista che si chiamava Muzak. Si voleva distinguere dalle altre riviste per via di recensioni "molto profonde" con un linguaggio più da avvocato che da semplice collaboratore che esprime delle proprie semplici impressioni.

Non ci capiva niente nessuno. Dopo un pò chiusero gli "intelligentoni" , il popolo non era ancora all altezza.

REBBY alle 17:34 del 23 agosto 2016 ha scritto:

Va beh, ha avuto 2 vite brevi (e dalla sua prima nacque Gong, da me all'epoca ancora più apprezzata) e si voleva distinguere dalle altre soprattutto per un approccio politico, allora ritenuto urgente, si differenziava assai dal nazional popolare Ciao 2001, allora in voga, ma se la leggevo io che facevo la prima superiore non credo proprio usasse un linguaggio forense.

Marco_Biasio, autore, alle 18:12 del 23 agosto 2016 ha scritto:

Caro robi, se non hai apprezzato o peggio ancora capito la recensione, mi farebbe piacere sapere perché e limitatamente a quali passaggi. I feedback di chi mi/ci legge servono anche per quello. Grazie.

robi alle 18:43 del 23 agosto 2016 ha scritto:

Rebby

ricordo che dopo i primi numeri fecero un esame di coscienza sul linguaggio usato fino ad allora ,e così decisero (scusandosi con i lettori ) di tornare alla "normalità".

Marco Biasio

caro Marco se mi tiri fuori Escher ,Bach e Goedel per commentarmi un disco ,già mi si rizzano i capelli. A parte gli scherzi il fatto è che tornato dal lavoro per leggere la tua recensione ho faticato come leggere un testo di filosofia di Severino E. La recensione è scritta bene , ma pecca mia , sarà l età ..la stanchezza non mi aspettavo di impegnarmi per leggere una recensione. Nell ultima parte del commento (il quadro generale......) fai una sintesi perfetta del disco. Non farci caso più si invecchia più si diventa polemici ...continua così .....ciao.

REBBY alle 19:13 del 23 agosto 2016 ha scritto:

Sinceramente Robi io il "ritorno alla normalità" non lo ricordo, ma se è così, a maggior ragione, significa che non chiusero perché utilizzavano un linguaggio forense. Ma se hai più o meno la mia età e già allora ti interessavi di musica (volendo andar oltre la qualunquista e divista Ciao 2001) lo sai bene anche tu.

Poi hai ragione le recensioni di Marco (come quelle di Gong e di Muzak) richiedono impegno ed attenzione.

Ciao