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R Recensione

7/10

Ty Citerman

Bop Kabbalah

In preparazione ad un prossimo viaggio a Belgrado, ho recentemente letto Pijavice, di David Albahari. Nel libro vengono raccontati, per bocca dello stesso protagonista, due mesi stranianti bruciati nell’affannoso tentativo di scoprire perché mai, in una Serbia dilacerata dal nazionalismo antisemita di fine secolo, un uomo abbia colpito con uno schiaffo una sconosciuta ragazza, sulle rive del Danubio di un’ordinaria domenica di marzo. Il monologo ininterrotto dell’elzevirista di Minut è, in verità, un sarcofago tematico e narrativo, un sovrapporsi perpetuo di piani e prospettive dove niente, a ben vedere, accade. V’è il ricorrere pulsante di una criptica simbologia, chiave di un altro mondo, non sconvolto dall’infuriare dei raid nazisti contro luoghi di culto ed abitazioni di singole personalità ebree: l’emergere indistinto della protagonista femminile, un “manoscritto di sabbia” borgesiano, la cabala, la matematica, l’Ebreo-acquaiolo errante (fantasmi ed ossessioni di un’intera letteratura, di un intero popolo, di un’intera era) sono pedine di un’unica scacchiera, un grandioso piano misterico e salvifico concepito da tempi immemori. Qualcosa a metà tra il Kafka di Das Schloß e l’Aronofsky di π, giusto per meglio delimitare il raggio d’azione. Andrà a finire, ça va sans dire, come mai si sarebbe potuto inizialmente prevedere.

Con la cabala di mezzo è quantomeno azzardato parlare di casualità. Non potevo scegliere disco migliore cui accompagnarmi nella traversata di queste pagine. “Bop Kabbalah” – che già dal titolo esplicita, a voce spiegata, in quali scenari andrà ad avere libertà di movimento – è l’esordio solista di Ty Citerman, da queste parti già noto come chitarra dei Gutbucket e, in realtà, prolifico strumentista newyorchese attivo anche nel Collapse Quartet (“composed and improvised music for 24 strings”, con Yoshie Fruchter, Eyal Maoz e Jonathan Goldberger) e in duo col flautista nippo-americano Kaori Watanabe. Non è la prima volta che a Tzadik prendono corpo tali sortite – il trapianto di un musicista singolo in un contesto differente da quello corale della band madre –, peraltro un immarcescibile classico della fluttuante flessibilità propria dell’ambiente jazz della Grande Mela. Questa volta, però, dietro l’ispiratore del progetto si cela non un collage di schizzi variamente improvvisati, quanto una raccolta di brani interamente composti per quartetto: vi sono altri due terzi dei Gutbucket (Adam Gold dietro le pelli, Ken Thomson al clarinetto basso) e Ben Holmes alla tromba.  

Bop Kabbalah” ci fornisce l’occasione – arrangiamenti a parte – di ammirare da vicino la chitarra di Citerman, per un motivo o per l’altro sempre soffocata dalle sovrastrutture dell’ensemble di provenienza – e, sicuramente, dall’onnipresente esuberanza di Thomson, lì al contralto. Questi brani, al contrario, tendono ad abbandonare inutili contorsioni cerebrali e a focalizzarsi sullo sviluppo di coerenti, imprevedibili, raffinate heads, sulle quali poi giocare d’accumulo. Retaggi di musique concrete sembrano diramarsi, come cerchi concentrici, nello stagno di “Exchanging Pleasantries With A Wall” (gran prova): l’acqua si increspa in una dolente processione klezmer, le onde cominciano a fremere e a schiumare, abbattendosi infine in una maestosa pompa dal passo doom e dalle decorazioni free jazz. Ty sembra più che mai Tony Iommi con lo zucchetto in “The Voice That Led Us Here And Then Waltzed/Hobbled Away”, vestendo i paramenti del guitar hero volandiano: “Talmudic Breakfast” mette in scena un fitto dialogo fra tromba e sei corde (ampia la tavolozza dei colori quivi impiegata, uno swing acido che nelle tonalità tenui sembra adocchiare la Gibson ES-175 metheniana di “First Circle”); “Snout” disarticola il discorso in una serie di singulti impro ricondotti ad un comune ovile jazz rock.

Aldilà della generica validità del progetto, i pezzi da novanta sono tre. Sull’impianto solidissimo di “The Cossack Who Smelt Of Vodka” (riff proto-metal tenuti in tensione da una tarantella di piatti), Thomson cinguetta sardonico, in un mirabile restringersi ed allargarsi di piani sequenza. “After All That Has Happened” indovina la secca scansione ritmica, in 9/4, su cui disegnare un insolito, ribotiano, frammentato tango del Nuovo Millennio – canzone, questa, da tramandare ai posteri, come efficace via mediana fra sperimentazione e consolidamento della tradizione. In “(Conversation With) GhostsCiterman contrappunta liquido (à la Greenwood, senza timore di bestemmiare) un semovente tappeto bebop, consentendo il formarsi di un bell’ibrido linguistico.

Se voleva servire come apertura di una nuova fase, l’obiettivo è raggiunto. Il catalogo Tzadik, come la Tanakh, nasconde sempre il meglio nelle sue pieghe.

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