R Recensione

6/10

A Spirale

Agaspastik

Italia, paese di santi e navigatori. E suonatori di jazzcore, verrebbe quasi spontaneo aggiungere. Ebbene sì, signori: qualora non bastasse l’enorme ricerca sonora degli Zu, gli spintoni degli Anatrofobia, la cruda brutalità dei Testadeporcu, qui si parla ancora una volta di chitarre in confusione perenne, tempi dispari, sax martoriati nel completo disordine strutturale che avvolge la forma stilistica del terzetto napoletano degli A Spirale. Già, tortile. Potrebbe essere l’aggettivo giusto per fissare, nero su bianco, le prerogative della band partenopea. Giacché molto spesso, nei sette pezzi di “Agaspastik”, non si può parlare di costruzione, quanto di destrutturazione. Un processo inverso di demolizione e disfacimento che parte da un singolo suono, distorcendolo o dronizzandolo e, quindi, snaturandolo in profondità in ambo i casi: questo per quanto riguarda, specialmente, l’uso dei fiati, demonizzati da elettronica e feedbacks su un tessuto hardcore dalla grande sconnessione, devastante nelle ripartenze ed angoscioso nei momenti in cui preferisce indugiare su sé stesso (“Naja Tripudians”).

Solo a metà disco si colloca l’unico vertice di vera musicalità, una “Calco” mesmerizzante trascinata da una linea di basso ieratica e posata interamente sull’estro del sassofonista Mario Gabola, vicinissimo, per sentimento riversato, al John Zorn della recente quadrilogia Moonchild. Se lì l’anello di congiunzione era però affidato alle dislessie pattoniane, qui sono i dosaggi di silenzi e armonie a rendere l’impasto decisamente meno pirotecnico e più cupo, maligno, espressione del “dark side” di un lato oscuro già a prescindere e che pure si manifesta, diffusamente, lungo tutto lo svolgersi del lavoro. Sottoforma di gratuite violenze noise dal taglio cabarettistico per una rutilante roulette russa (“Black Crack”), stantuffi free jazz disarmonici, folli e dinamici stemperati, poi, in un mare di delay frammezzo a Ornette Coleman e gli Zu di “The Way Of The Animal Power” (“Tersicore”) e lunghe agonie per la colonna sonora di una pellicola espressionista sulla scia di “The Fall Of The House Of Usher”, come gli otto minuti e venti con i quali “Kaluli” - un’apnea scudisciata dalle “little things” di Massimo Spezzaferro - dispensa una tensione ben tangibile.

Gli A Spirale non sono appetibili, radio friendly e nemmeno vagamente avvicinabili ad una forma canzone compiuta. I loro esperimenti difficilmente si lasciano andare a sciolte emotive, ed altrettanto faticosamente possono essere amati. Anche per questo, però, “Agaspastik” acquista un fascino di spessore: la consapevolezza di fare ciò che si sente, nel miglior modo lo si voglia, alle condizioni che si desiderino. Non per tutti, ma anche non da tutti.

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