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R Recensione

8/10

AA. VV.

Fonderie Jazzcore

Le compilation scrivono la storia, ancora. Miscellanee per sopravvivere, crestomazie per testimoniare. In vita o in morte. Forse posticcio, il pensiero di un intero genere che si muove all'unisono ed all'unisono parla. Forse artefatta, romantica, l'idealizzazione di un'istantanea che si imprime nella testa di chi ascolta nel momento stesso in cui viene scattata. Forse. Sta di fatto che jazzcore è, in Italia, la riedizione tardo novantiana (e ben lungi dall'estinguersi) di ciò che fu beat nei ruggenti Sixties, prog nel decennio successivo, hardcore nichilista a braccetto con le tv commerciali e noise (acido, crivellante, contundente) a cicliche ondate, riemerse e forse già soccombute nell'esplosione del Canalese. È, in altri termini, l'accettazione critica di un linguaggio assolutamente non autoctono, ma reso tale: trasformato dalla particolare geografia fisica e culturale dello Stivale, approfondito in ogni sua sfumatura, decomposto e ricostruito, lasciato macerare e poi fatto ancora lievitare. Un concetto, quello di Italians play jazzcore, immensamente complesso ed articolato, che necessita dell'individuazione primaria delle fonti, dell'analisi contingentata degli sviluppi, della mediazione futura dell'ambiente. Per l'approfondimento teorico vi sarà, nel prossimo futuro, spazio. Parliamo ora del pratico. I colleghi di webzine di Impatto Sonoro si avventurano tra i flutti dotati di umiltà e competenza, sprezzanti del pericolo, e costruiscono la “radiografia quanto più dettagliata possibile” (parole, giuste, loro) di “Fonderie Jazzcore”: mista in doppio disco, di cui uno (“Colata In Jazzcore A Contropressione”) contenente pezzi inediti, rarità, b-side in studio, e l'altro (“Jazzcore In Sala Mensa”) selezionate rese live di mostri più o meno sacri dell'etichetta. Due ore abbondanti di inferno sulla terra.

Chi

Una compilation non è un album delle figurine. Non è, cioè, l'adunata dei marescialli, la lunga fila delle personalità importanti, il dream team a raccolta su divani ricolmi d'estetica (cit.). Il punto è ancora torbido? Con il calcio, altra tara tutta tricolore, è sicuramente più facile spiegarsi. Scopo di “Fonderie Jazzcore” non è quello di esporre ai riflettori il Real Madrid, ma di catturare la stretta di mano tra il Sassuolo e il Barcellona. Capito, ora? L'ha colto sicuramente chi ha disposto la tracklist, con intelligenza strategica ed eccezionale intuito per l'omogeneità. Se siete completamente digiuni del genere, e volete iniziare ad abbeverarvi qui – in tal caso, faccio mio il commento di un vecchio fan dei Led Zeppelin indirizzato a chi per la prima volta ascolta l'assolo di Jimmy Page su “Stairway To Heaven”: beati voi –, facilmente classificherete sotto il file “unknown” tutti i partecipanti al progetto, quelli almeno che figurano nel primo disco. Chi ha anche solo una minima dimestichezza con i vapori sulfurei sprigionati da queste assi meglio saprà, al contrario, come muoversi e cosa aspettarsi da chi. Prima osservazione, banale, e primo inevitabile apprezzamento: qualche capoccia, tanti gregari. Meno stereotipo (della serie: “a X corrisponde Y”. Leggasi: “al jazzcore italiano corrispondono gli Zu”) e più diversificazione fattuale, più chance di espandere a tutto tondo la visione del genere, più possibilità di assorbire nuove sfumature, di cogliere altre prospettive. A R.U.N.I., Luther Blissett e – i furono? – Anatrofobia e Testadeporcu si alternano nomi assai meno noti, come Otiòp, Demeb, Bz Bz Ueu, Carne. Seconda osservazione, susseguente, che conferma il sospetto: ogni complesso mette in scena il proprio jazzcore – antitetica e definitiva distruzione della proposizione imbastita qualche riga qui sopra, per cui non esiste un unico e coevo modello di jazzcore italiano. Terza osservazione: l'arco di tempo coperto è vastissimo, un ponte con i pilastri confitti nel pantano performativo degli SPLAtterpinK (i primissimi anni '90, bolognesi) a gettarsi tra i boschi umbri dei GueRRRa. Quarta osservazione, in transito verso il prossimo paragrafo: come lo si suona il jazzcore? In tanti modi quante sono le formazioni in azione.

Come

Per chi “se non stupri un sassofono non fai jazzcore”, una grandinata di sorprese lo attenderà al varco di “Colata In Jazzcore A Contropressione”, da subito. In più di metà scaletta non si avverte fiato – riferibile tanto all'ottone, quanto a voce umana. Comprensibile ed anzi incoraggiabile questo, quello pone altresì numerosi paradossi oscuri, difficili a risolversi per chi vive ancora il cliché. Jazz, così come math, o sopra a tutti art, è uno stato mentale e cognitivo, astratto, ancor prima della sua realizzazione pragmatica. Indica la libertà d'azione, la caduta di costrizioni, l'individualismo autarchico. Si applica alla nota, o anche alla sua posizione nel flusso compositivo, o ancora al valore numerico ad essa attribuito, alla sua accentazione, al colore donato. Quel suffisso, “core”, è il “nocciolo” che rimanda ad un universo secondo, parallelo, d'istinto ed elettricità, di rigore e circolarità. Le due entità si compenetrano in una tabella a doppia entrata dove le colonne iniziano, ma non finiscono, e danno origine ad un'infinita e biunivoca serie di permutazioni. L'origine comune di ogni nome è tanto più palese quanto, come in un albero genealogico, o nella ricostruzione scientifica di una lingua, si riscontrano le odierne differenze stilistiche, sincretiche e sincroniche. La fucilata futurista di “I'm Deutsch” dei Testadeporcu (ventitré secondi di basso, batteria e latrato pesante) nasce dal comune utero donde proviene anche “Cuore Veloce” dei 3quietmen, che va tuttavia a rievocare crimini noir su salti di tonalità ritmici, chitarrone surf e una tromba lamentosa vicinissima al Roy Paci marca CorLeone. “Un Giovedì Di GezzCor” dei R.U.N.I. – nel cui novero si conta anche Roberto Rizzo dei Quasiviri – è il panzer synth-core, con venature industrial, che meglio può introdurre le evoluzioni di “SciMMMia” dei GueRRRa, interessante partitura per power trio tra Don Caballero e King Crimson (per cui è stato girato anche un divertente videoclip promozionale, a cura di Michael Spezzi). Il tanto caratteristico sax compare solo al quarto episodio della scaletta, in “Sponsor” degli SPLAtterpinK, con un'aggressività peraltro caustica e chanciana del tutto aliena al Coleman disintegrato di “Mefistofele” degli Anatrofobia (che replicano, più avanti, con i vuoti sensoriali di “Trasfigurazione” a seguire da vicino il Morricone delle prime colonne sonore argentiane). Ancora, se la no wave ossessionata e macilenta di “Col-Lasso Di Tempo” dei Nevroshockingiochi si trascina verso una conclusione di puro dadaismo noise ad effetto, e “The Bag” dei 7C è un esempio di entusiasmante filologia per i cultori, con The Thing trapiantati a New York e lasciati liberi di devastare la suburb, sono i Tougsbozuka di “Buao Zangt” a lasciare la migliore impressione: micidiale sciabolata math-core, tiro metallico applicato a rallentamenti quasi sludge, un bagno di sangue strozzato in un'ansiogena coda cosmica, irreale, tra MoRkObOt, Meshuggah e Zeus!.

Se son rose, fioriranno

Sarebbe ridicolo intravedere l'oro dove non v'è nemmeno la miniera. “Fonderie Jazzcore” piace anche perché non ha la pretesa, assurda, assolutistica, di inanellare soli centri a bersaglio. Enorme è il passo in avanti compiuto dai Luther Blissett, ma il bebop triturato da mefitiche sei corde in “Cholera” non si fa apprezzare da subito – lo scarto con le scorie post-nucleari di “Bloody Sound” è evidente, e non ci è dato sapere se si tratti di consapevole cambio di marcia, o di excursus temporaneo. I compagni di (recente) split, Gli Putridissimi, tirano fuori dal cilindro una delirante scheggia heavy-psych, “Cocciniglia Delle Morti”, con tastierine demenziali affondate in un garum di chitarre sciolte nell'acido e spazzate via dalla fisicità zorniana del sax. Poco coinvolge il lo-fi stralunato dei Carne, con il garage putrescente di “Fango” appena migliore della compagna “Ippopotamo”. Troppo campata per aria la proposta di (dei? Davvero difficile capirci qualcosa di più in giro per internet...) demeb, soprattutto nella grottesca e molto lunga “Ballo Interstellare” – bassi gommosi, florilegio di effettistica invero sottilmente comico, uno spoken word sconclusionato. Male anche “Potere”, jam slappata come i Primus di “Hamburger Train”, ma a vista, senza un briciolo di continuità (e kitchissima la caricatura iniziale di un Mussolini alla conquista dello spazio). Tutto sommato dimenticabile, nel corpus generico della tracklist, l'odissea Sightings di “Delirio Il Viaggio Dell'Elefante”, a firma Umanzuki, tant'è che in qualche frangente ci si domanda se gli artisti qui coinvolti siano minori solo per nome, o anche per caratura. Ma va bene così.

Col pubblico (non) è un'altra cosa

Jazzcore In Sala Mensa” non è un vezzo completistico. Serve a rafforzare la credibilità della panoramica – quasi indispensabile, per un gruppo jazzcore, affiancare alla validità delle idee studio la capacità di farle suonare al meglio nella versione live – e a colorare con le tinte dell'auctoritas l'intero progetto. Una scelta quantitativamente contenuta, ma più mirata, pervade l'intera gamma del secondo disco di “Fonderie Jazzcore”: solo Anatrofobia ed Atomik Clocks ritornano, nel roster di talenti dispiegati nella prima metà, ed il resto delle slot è riempito da pesi massimi come Pharm, Nohaybandatrio, Squartet e, ovviamente, Zu. Molteplici e multiformi gli orientamenti, sempre fantastica – per un motivo o per l'altro – la resa. “Sorbetto” dei Pharm (supergruppo con in seno, tra i vari, Fabio Rondanini dei Calibro 35 e Reeks di Germanotta Youth e Nohaybandatrio) sgraffigna la sincope di basso alla “Theme De Yoyo” dell'Art Ensemble Of Chicago – coverizzata anni addietro, in uno split album coi canadesi Spaceaway Inc., dagli... Zu! – per erigervi una spy story screziata di elettronica. “Cash'N'Carry”, suonata a La Centrale dagli Atomik Clocks, ha pericolosi e sensuali agganci funk che ruzzolano, splendidamente, all'ombra di un sax in melismo cool. “Erotomane”, ripescata dal fortunato “Live In Helsinki” rilasciato nel 2002 dagli Zu, è la fedele cattura di un suono, quello dei magici tre di Roma, in transizione dal vaudeville teatrale di “Bromio” all'esplosività mefistofelica di “Igneo” (lontano, e molto, è ancora “Carboniferous”). Volano frammenti di legno per l'impatto catastrofico dell'attacco di “Harpya”, suonata dai Nohaybandatrio alla Locanda Atlantide: basso e chitarra pizzicati in tapping chicagoano, ritmica quadratissima, sax struggente. La cosa migliore, assieme a “Sexy Camorra” degli Squartet, pirotecnico flusso math-jazz dove l'arpeggio guarda in volto la bacchettata, capace di vestirsi d'ulteriore raffinatezza dietro alla flautata “San Zio” degli Anatrofobia.

Potevano esserci, non ci sono stati

Il che non è una recriminazione che va a stridere con quanto scritto ed edotto in precedenza, sia ben chiaro. Lo si legga come uno stimolo a produrre, in copia fisica, tutto questo ben di Dio (e se serve ad attirare nuovi adepti, poi, ben venga), o ad accelerare i tempi per la stesura di un secondo capitolo. In ordine alfabetico, suggeriamo: A Spirale (la cacofonia rumoristica a braccetto col conservatorio), CorLeone (le fanfare funebri e la tradizione più mediterranea), Gronge (Tristan Tsara è sempre stato felice di loro...), Neo (tutto il resto).

N.B. Copertina di Marcello “Loki” Siragusa, fumetto all'interno di Maurizio Zappa.

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C Commenti

Ci sono 3 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
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Cas alle 12:27 del 9 agosto 2013 ha scritto:

questa è un'antologia davvero monolitica. hai fatto un ottimo lavoro, marco, grande!

redbar alle 13:12 del 9 agosto 2013 ha scritto:

Confermo i complimenti e mi accingo all'(impegnativo ?) ascolto.

FrancescoB alle 14:08 del 16 agosto 2013 ha scritto:

Non vedo l'ora di ascoltarlo, credo sia qualcosa di eccezionale. Marco uber alles.