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R Recensione

7/10

Luther Blissett

Bloody Sound

L’anormalità nell’anormalità. Luther Blissett, giamaicano, è stato uno degli oggetti misteriosi del calcio italiano di metà anni ’80, indimenticabile (ma dimenticato) reperto di un Milan che annaspava per ritrovare la forma perduta dopo due discese consecutive in serie B: in altre parole, una pippa clamorosa che menzioniamo hic et nunc solo grazie ai filmati di repertorio della Gialappa’s e che potrebbe benissimo fungere da oggetto di tesi di laurea per il prossimo Cristian Vitale. Dietro Luther Blissett si nasconde, però, anche l’Uomo Qualunque: un alter ego di chiunque, grumo di coscienze autonome ed azioni, un’intelligenza collettiva senza distinzioni di sesso o razza, l’Anonymous impenitente che urla il mio mitra è una tastiera che ti spara sulla faccia. Tutto e niente allo stesso momento, a seconda delle situazioni. Così Luther Blissett, quartetto-quasi-quintetto di Bologna, si nasconde dietro alle metamorfosi e naviga a vista nell’oceano tempestoso del jazzcore tricolore senza mai dare, a dispetto dell’ancora acerba esperienza studio, l’impressione di sbandare.

Accennavamo in apertura a “Bloody Sound”, loro secondo disco che segue di appena un anno l’omonimo esordio, come ad un manufatto atipico finanche per il genere. Per coloro che jazz + noise lo si fa senza sei corde (chiamando a testimoni, in ordine decrescente, Zu, A Spirale, Mombu, i concittadini Testadeporcu) c’è di che stupirsi: “Fat Elephants Comin’”, capolavoro in itself, si destabilizza con il passare dei minuti proprio a partire da un melmoso giro di chitarra, sludge post-Melvins o near-Dead Elephant – se volete rimanere entro i confini dello Stivale –, su cui si innestano una ritmica ipnotica, rivoli di suono destrutturato in ogni direzione, tremebondi folleggiamenti impro-bop (non da poco pensare che buona parte di quanto si sente è frutto di improvvisazione collettiva!) e vampate di lapilli incendiari. Quanto all’inserimento di compartecipazioni vocali, antico pionierismo già sdoganato sul nascere dallo Yamatsuka Eye versione Naked City, è sufficiente attendere l’incastro tra la breve apnea motorik di “Mekkanimal II” e lo spoken word fratturato di “Staggering” perché anche l’ultimo tabù, finalmente, cada.

In mezz’ora i Luther Blissett riescono a fare ciò che ad interi gruppi non riesce in una carriera: la sintesi tra brutalità e sregolatezza, fantasia ed aggressività. “Black Train Raising”, aperta da una breve introduzione che è tutto un programma, avvoltola il crossover degli anni ’90 dentro una matassa di filo spinato free jazz, chitarre simil-frippiane e bassi gargantueschi. “Grind And Freak” è il punto più alto di quel gioco al massacro che sorregge, come un pilastro portante, “Bloody Sound”: una cascata di noise scomposto in plurimi stop&go, dove il sax è libero di lacerare i tessuti e la chitarra di ricamare ombreggiature vagamente noir. “We Are A Powerful Supply For Noise, Progress And Destruction” tambureggia con la potenza mefistofelica di Moonchild e con i bassi inarrestabili di “Carboniferous”: un paragone, quello con gli Zu, che sembra non piacere troppo al quartetto, ma che si fa di fatto inevitabile al sopraggiungere di “Sonic Boom”, una poltiglia decomposta di avant-rock e rintocchi di psichedelia effettata in putrefazione sulla scia di “Chthonian”.

Il disco esce per la Bloody Sound Records, una piccola etichetta indipendente a cui fanno capo gli stessi bolognesi. Quest’Italia creativa che lavora alacremente, nel buio, è quella che ci piace di più.

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