Mombu
Mombu
Three musicians is megl che uàn. Dei tre, il più furbo ha deciso giustamente di pacificarsi una volta per tutte con lestratto conto bancario e di girare il mondo con il bpm tecnanalogico nel cuore. Laltro, non avendo niente di meglio da fare, ha chiamato degli amici e si è messo a sferragliare con effetti e distorsioni, per il gusto di fare due orecchie così allastante di turno senza scopi ulteriori. Lultimo non è rimasto a guardare, si è comprato un paio di maschere voodoo e ha assoldato il collega Antonio Zitarelli dei Neo, già incrociato sui palchi per il vecchio progetto Udus. Le tre anime di uno dei più straordinari gruppi italiani degli ultimi dieci anni, gli Zu, in concomitanza con la loro pausa e la (fuoriuscita? buonuscita?) di Jacopo Battaglia fatele voi, le x date in funzione logaritmica del Carboniferous Tour decidono di accantonare lamalgama tutto e di assecondare ciascuno i propri impulsi: a ruota libera, lelettronica orgiastica, la siderurgia applicata, il free jazz sciamanico. A cosa porteranno queste scelte, lo si vedrà in futuro. Concentriamoci ora sul primo di questi bersagli.
Mombu è la sigla dietro cui si cela lo avrete capito il sax baritono di Luca Mai. Un progetto degno di attenzione, aldilà dei nomi coinvolti, perché scatena subitamente una ridda di questioni cruciali legate a doppio filo al processo di ispessimento e metallizzazione del gruppo madre. La sezione fiati, in particolar modo nelle ultime tappe evolutive, era sembrata spossessarsi in maniera quasi viscerale del caratterizzante melismo delle prime prove, andando anche oltre le semplici parabole anarco-jazz ed allineandosi allinsistito tribalismo di basso e batteria, con la sostanziale riduzione delle armonie melodiche in armonie pulsive ed una perdita di rilevanza caratteristica nellamalgama conclusivo. Il primo dubbio se fuori dai vincoli imposti dallo stile di Pupillo e Battaglia il sax di Mai abbia cercato di aprirsi nuove strade è destinato ad essere deluso. Anzi: alimentato. Razionalizzando sino in fondo Mombu, è proprio lelemento percussivo a dominare la struttura dei brani: ripetizioni avvicinate di piccole celle strutturali annegate in una serie infinita di micro variazioni ritmiche.
Loccasione per unulteriore cambio di rotta è stata volutamente? elusa. La scelta orientata decide il futuro e la longevità dellintero disco, in almeno due passaggi differenti. Sacrificando la stratificazione al battito, si riduce allosso la possibilità di vedere impiegato un qualche pluristilismo: in altri termini, le soluzioni a portata di un duo peraltro così logisticamente limitato sono, anchesse, ancora limitate. Cè da dire che Zitarelli è pur sempre un ottimo batterista, e a tratti i risultati non sono poi così distanti dai migliori numeri degli Zu: Stutterer Ancestor è la classica nenia in torsione sparata con la forza di un proiettile, la marziale Orichas viene letteralmente traforata dalla forza delle percussioni (collabora Jorge Castillo, strumentista cubano) e di un marmoreo sostegno sassofonistico. Il rovescio della medaglia è che, pur rischiando qualcosa sul versante di un monocromo one dimensional beat (Kemi, la sferzata sludge in coda a Ten Harpoons Ritual ne sono un esempio), interessanti soluzioni di continuità stranamente psichedelica vengono impiegate nellaccostamento di pelli dalle timbriche differenti, in grado di ingigantire la prospettiva del brano e sottoporlo ad un nuovo giudizio a tutto tondo. Sicuramente splendida Regla De Ocha, con le sue lunghe tornate di soli bonghi, tamburi e mbira, altrettanto buona Radà e le occasionali rimembranze morphiniche, prese a sberle in una rigorosa, sbilenca costruzione geometrica.
Mi piacerà raccontare che razza di forza della natura erano gli Zu, ai miei tempi, se un giorno dovessi avere dei nipoti. Molto più difficilmente mi ricorderò dei Mombu. Ma siamo solo al primo atto: vogliamo non dare tempo e fiducia?
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