Mombu
Niger
Per un motivo o per laltro, una copia di Niger è volata a nord, in mano ai Meshuggah. I Cinque dellApocalisse, gli aquiliferi del tech metal, i gelidi razionalisti delle poliritmie: quanto di più atipico si riuscirebbe a contrapporre ai lutulenti incubi di Luca Mai e Antonio Zitarelli, insomma. Colmo dei colmi, pare addirittura che il disco sia loro piaciuto. Sapevano della coincidenza? Avessero anche saputo, tutto sarebbe rientrato nel più ampio schema della coincidenza biunivoca: gli ispiratori che ammirano gli ispirati. Ma come, proprio loro, i torelli dellafro-grind, indomiti portavoce del voodoom, specimen di mediterraneità applicata alloverdose ritmica e al minimalismo sonoro accostati ai Meshuggah? Un paragone blasfemo, quantomeno bizzarro, per chi ha nelle orecchie ancora lomonimo esordio del duo. In equilibrio precario su di una linea frastagliata di rumore bianco, dodici secondi in tutto, si erge lo spartiacque tra quei Mombu e questi Mombu: un feedback demoniaco che si schianta su una muraglia di (dis)umana metallizzazione, la scalenizzazione delle entrate ritmiche, un baritono che si fa clava di aggressione ed afflato lirico, polmone della variatio e della tessitura strumentale, canti di guerra ancestrali sventrati da un brutale assolo a zanzara, insolentito dalla cappa stordente in cui si ramifica una sola nota. Mighty Mombu è lincontro, bacchico ed impossibile, tra il cerebrale maglio scandinavo e lossessiva trascendenza del Continente Nero: heavy metal ciclopico e stritolante, dove lAfrica è presenza fisica e non santino da appendere alle t-shirt.
Se qualcosa è cambiato, nel lasso di tempo che ha portato alla rielaborazione di Mombu in Zombi ed alla collaborazione col sempre eccellente Paolo Spaccamonti, nella palude sabbathiana di SpaccaMombu, questo è stato proprio lelemento alfa, linfiltrazione nera, la sbornia afrofila sulla cui scia molto underground italiano non ha pregato due volte per accodarsi. Dietro Niger ci sono ore, giorni, settimane di studio maniacale, lassoluta impellenza di cambiare prospettiva e la volontà di fare tabula rasa o quasi del proprio passato. È la conditio sine qua non perché Niger non appaia come lennesimo, fallito tentativo occidentale di suonare tribale: ma sia, al contrario, un ingresso trionfale del tribalismo autoctono sotto larco dellOccidente. Un amalgama in grado di superare la propria condizione naturale di occidentalità e, pur performato in un ambiente culturale altro, senza le limitazioni mentali che tutto ciò presuppone. La difficoltà e la serietà dellimpresa in cui i Mombu si sono avventurati spaventa e terrorizza, proprio perché radicale, estenuante. Ed etichette come quelle ironicamente forgiate dallo stesso duo romano accompagnato, per loccasione, da una più ampia backing band, in grado di restituire ogni sfumatura della polifonia compositiva si svuotano di ogni loro significato.
Rimane la realtà di un lavoro incredibile, i cui particolari possono essere ulteriormente ottimizzati (si potrebbe parlare, allora, di un tassello veramente epocale). Si parte in quarta da subito, con la costruzione non lineare della title-track, stantuffata Zu si riecheggia un po Mimosa Hostilis, qui dentro con lintreccio crimsoniano, se mai Fripp fosse rimasto affascinato da Nairobi, di percussioni materiche e secondarie linee armoniche, stoppate e rilanciate come in un arena hardcore privata del d-beat e seppellita dai poliritmi. La tensione, sovrannaturale, si scioglie poi in una seconda tornata, ad andatura marziale e collante ieratico, inno sciamanico irrigidito da continue sollecitazioni militari. 667 A Step Ahead Of The Devil passa le pelli dei Lightning Bolt sotto le armi, una grassa e solenne mitragliata con i crash scorticati vivi. Completa è la sovrapposizione di temi e culture in Carmen Patrios, lipnotica invocazione di Mbar Ndiaye con accompagnamento di maracas e mbira: il momento, se vogliamo, più etnografico del disco, lattimo in cui la personificazione rischia di sublimarsi nella caricatura, fermandosi appena sul ciglio. Seketet si sfoga, con rabbia, solo dopo una complessa peregrinazione in nebbie psichedeliche (le porte della percezione, quelle vere, fanno paura), i Pink Floyd confusi nel buio ancestrale della savana. I tonfi di Adya Houn'to si disarticolano presto in un delirio ritmico che sloga anche la componente melodica, ridotta in incendiaria poltiglia free jazz: The Devourer Of Millions, in tutto ciò, è lanello di raccordo, pesante epilogo con fiatone sludge ed ossessivo ritorno di una head mai così selvaggia (si appropinqua il secondo volume di In The Kennel?).
Niger è unesperienza che va vissuta. Obbligatoriamente. In attesa della chiusura della triade, della sintesi hegeliana, del disco perfetto.
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