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R Recensione

8/10

Mombu

Niger

Per un motivo o per l’altro, una copia di “Niger” è volata a nord, in mano ai Meshuggah. I Cinque dell’Apocalisse, gli aquiliferi del tech metal, i gelidi razionalisti delle poliritmie: quanto di più atipico si riuscirebbe a contrapporre ai lutulenti incubi di Luca Mai e Antonio Zitarelli, insomma. Colmo dei colmi, pare addirittura che il disco sia loro piaciuto. Sapevano della coincidenza? Avessero anche saputo, tutto sarebbe rientrato nel più ampio schema della coincidenza biunivoca: gli ispiratori che ammirano gli ispirati. Ma come, proprio loro, i torelli dell’afro-grind, indomiti portavoce del voodoom, specimen di mediterraneità applicata all’overdose ritmica e al minimalismo sonoro… accostati ai Meshuggah? Un paragone blasfemo, quantomeno bizzarro, per chi ha nelle orecchie ancora l’omonimo esordio del duo. In equilibrio precario su di una linea frastagliata di rumore bianco, dodici secondi in tutto, si erge lo spartiacque tra “quei” Mombu e “questi” Mombu: un feedback demoniaco che si schianta su una muraglia di (dis)umana metallizzazione, la “scalenizzazione” delle entrate ritmiche, un baritono che si fa clava di aggressione ed afflato lirico, polmone della variatio e della tessitura strumentale, canti di guerra ancestrali sventrati da un brutale assolo a zanzara, insolentito dalla cappa stordente in cui si ramifica una sola nota. “Mighty Mombu” è l’incontro, bacchico ed impossibile, tra il cerebrale maglio scandinavo e l’ossessiva trascendenza del Continente Nero: heavy metal ciclopico e stritolante, dove l’Africa è presenza fisica e non santino da appendere alle t-shirt.

Se qualcosa è cambiato, nel lasso di tempo che ha portato alla rielaborazione di “Mombu” in “Zombi” ed alla collaborazione col sempre eccellente Paolo Spaccamonti, nella palude sabbathiana di SpaccaMombu, questo è stato proprio l’elemento alfa, l’infiltrazione “nera”, la sbornia afrofila sulla cui scia molto underground italiano non ha pregato due volte per accodarsi. Dietro “Niger” ci sono ore, giorni, settimane di studio maniacale, l’assoluta impellenza di cambiare prospettiva e la volontà di fare tabula rasa – o quasi – del proprio passato. È la conditio sine qua non perché “Niger” non appaia come l’ennesimo, fallito tentativo occidentale di suonare tribale: ma sia, al contrario, un ingresso trionfale del tribalismo autoctono sotto l’arco dell’Occidente. Un amalgama in grado di superare la propria condizione naturale di “occidentalità” e, pur performato in un ambiente culturale “altro”, senza le limitazioni mentali che tutto ciò presuppone. La difficoltà e la serietà dell’impresa in cui i Mombu si sono avventurati spaventa e terrorizza, proprio perché radicale, estenuante. Ed etichette come quelle ironicamente forgiate dallo stesso duo romano – accompagnato, per l’occasione, da una più ampia backing band, in grado di restituire ogni sfumatura della polifonia compositiva – si svuotano di ogni loro significato.

Rimane la realtà di un lavoro incredibile, i cui particolari possono essere ulteriormente ottimizzati (si potrebbe parlare, allora, di un tassello veramente epocale). Si parte in quarta da subito, con la costruzione non lineare della title-track, stantuffata Zu – si riecheggia un po’ “Mimosa Hostilis”, qui dentro – con l’intreccio crimsoniano, se mai Fripp fosse rimasto affascinato da Nairobi, di percussioni materiche e secondarie linee armoniche, stoppate e rilanciate come in un arena hardcore privata del d-beat e seppellita dai poliritmi. La tensione, sovrannaturale, si scioglie poi in una seconda tornata, ad andatura marziale e collante ieratico, inno sciamanico irrigidito da continue sollecitazioni militari. “667 A Step Ahead Of The Devil” passa le pelli dei Lightning Bolt sotto le armi, una grassa e solenne mitragliata con i crash scorticati vivi. Completa è la sovrapposizione di temi e culture in “Carmen Patrios”, l’ipnotica invocazione di Mbar Ndiaye con accompagnamento di maracas e m’bira: il momento, se vogliamo, più etnografico del disco, l’attimo in cui la personificazione rischia di sublimarsi nella caricatura, fermandosi appena sul ciglio. “Seketet” si sfoga, con rabbia, solo dopo una complessa peregrinazione in nebbie psichedeliche (le porte della percezione, quelle vere, fanno paura), i Pink Floyd confusi nel buio ancestrale della savana. I tonfi di “Adya Houn'to” si disarticolano presto in un delirio ritmico che sloga anche la componente melodica, ridotta in incendiaria poltiglia free jazz: “The Devourer Of Millions”, in tutto ciò, è l’anello di raccordo, pesante epilogo con fiatone sludge ed ossessivo ritorno di una “head” mai così selvaggia (si appropinqua il secondo volume di In The Kennel?).

Niger” è un’esperienza che va vissuta. Obbligatoriamente. In attesa della chiusura della triade, della sintesi hegeliana, del disco perfetto.

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Voto degli utenti: 7/10 in media su 2 voti.
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C Commenti

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Franz Bungaro (ha votato 8 questo disco) alle 9:16 del 14 giugno 2013 ha scritto:

Non so se è più bello il disco o la tua recensione Marco. Certo, nello spazio di pochi centimetri leggo (e ascolto) Africa, Meshuggah, Luca Mai, Zu, Spacca-e-Mombu, per me è come andare al Luna Park. Una delle cose più belle della carriera di Luca T. Mai mentre Zitarelli è sempre più ispirato (per quanto già dai Neo non è che fosse mai stato "noioso")... probabilmente il disco (non-)italiano più bello dell'anno.

Cas alle 14:13 del 16 luglio 2013 ha scritto:

una recensione davvero ottima! e il disco sembra esserne all'altezza, una vera furia. bello, approfondirò sicuramente gli ascolti

Franz Bungaro (ha votato 8 questo disco) alle 10:42 del 22 gennaio 2014 ha scritto:

trovo questo video...fantastico!

Cas alle 12:08 del 20 maggio 2014 ha scritto:

visti live ieri qui ad Aosta, all'Espace Populaire. hanno suonato per una mezzoretta (di più sarebbe stato eccessivo) e la resa è stata ottima: al contrario degli Zu, più impegnati in un'operazione "math", il duo dei Mombu crea un effetto di trance tribale, immergendoti in una frenesia percussiva e nei droni sconquassanti del sax baritono. dinamiche controllate alla perfezione, nonostante una spia che faceva i capricci. bravi bravi.