Zu
Carboniferous
1999-2009: il cerchio si chiude.
In principio Dioniso creò Bromio, ed ecco: era cosa buona e giusta. Tre schizzati romani, più un pingue ed eclettico trombettista siciliano dallottimo lignaggio artistico, per una strumentazione totalmente fuori dal normale: sax baritono, basso e batteria. Un solo monosillabo per pseudonimo, di volta in volta sputato in faccia, trasformato in grancassa, mitragliato perpetuamente, contrappuntato con orgoglio: Zu. Il sasso franse con violenza la calma apparente dello stagno e diffuse il suo verbo, laddove ce ne fosse stato bisogno. Con Igneo, del 2002, a conti fatti secondo album in studio (se escludiamo quelle decine di collaborazioni che contamineranno più della metà di questa nutrita discografia), dalla trionfante vox populi emerse imperiosa addirittura la figura ammirata di John Zorn: Avete creato una musica potente ed espressiva che spazza via totalmente ciò che molti gruppi fanno in questi giorni!. Mica male, eh?
Una decade sulla cresta dellonda, dicevamo, sia cavalcando tossici e caliginosi minimalismi (The Way Of The Animal Power, 2005), che permettendosi il lusso e, forse, il capriccio di raccontare, su vinile, a 666 persone, cosa possa accadere nellincontro fra loro e Il Teatro Degli Orrori (lo split di appena qualche mese fa). Proprio da qui si riparte (ma quando mai si sono fermati?), col bassista del supergruppo veneziano, Giulio Favero, a mixare questo nuovo Carboniferous, lesordio ufficiale per la Ipecac di Mike Patton. Indifferenti a tutto, se non alla propria musica, sprezzanti del pericolo e della sperimentazione, uomini con i muscoli. Zu! Zu? Zu.
Minimizzato lo straripante jazzcore dinamico degli albori, imbastardita la propria ricetta con centinaia di influenze diverse, circumnavigato il globo allinsegna di incenerenti live set, il linguaggio di Massimo Pupillo, Jacopo Battaglia (di nome e di fatto!) e Luca Mai arriva finalmente al suo compimento più alto. Già la lista degli ospiti è eloquente: King Buzzo, lo stesso Ragno Favero entrambi chitarre e persino il brillantinato patron Patton, nelle vesti del solito satanasso, al microfono. Carboniferous è un vulcano in piena eruzione, un cubo di Rubik che gira autonomamente su sé stesso, un s'il vous plaît pronunciato a bassa voce e subito rigettato indietro in una vampa di fiamme e lapilli. Dieci pezzi fondamentali, per cinquanta minuti di musica in cui succede di tutto: si abnega lessenzialità dei predecessori, con un muro di suono annientante e mai così uniforme, si cercano nuove strade ritmiche e melodiche, si cozza contro la palese impossibilità di risultare prevedibili. Tempo di mettere in forno per un quarto dora anche locchio vuole la sua parte e il piatto è servito.
Lo sfrenato caterpillar di Ostia, dunque, prima mette a ferro e fuoco il circonvicino, con batteria e sax che planano sul terreno, in una sorta di Air Force fuori controllo, poi si blocca, inserisce un loop elettronico a 3:29 e riparte furioso, facendo il vuoto al battito di una mostruosa ascesi ritmica. Carbon è nerissima nel corpo e nello spirito, con Mai che alza nuvole di fuliggine dal suo strumento, pompando fuori i Naked City, rivisti in versione dark-noise, su una coda apocalittica. Beata Viscera, per i suoi splendidi intrecci strumentali ed i dialoghi frenetici in stop&go, potrebbe essere un appesantito retaggio di Bromio, mentre da Erinys, sistolica pressa metallica di brutalità efferata, cola copioso il napalm.
In qualunque modo lo si ponga, il concetto è sempre quello: questi sono gli Zu, e nel contempo non lo sono. Questa roba suona come loro (perché lì cè Pupillo che sta massacrando il basso, no? E Battaglia non ha forse scheggiato lennesimo paio di bacchette? Qualcuno dica a Mai di abbassare quel cazzo di volume!) ma, alla stessa maniera, è del tutto differente. Subentra perciò una questione di attitudine, una forza intrinseca e passionale, che svela le carte in tavola e poi, con un gesto beffardo, le sparpaglia nuovamente con impazienza. Chthonian, un cerbero zorniano multiforme dalle notevoli variazioni di tempo, sinvola ben presto sulle traversine del math-core, mentre il basso rimbomba agghiacciante, e gradualmente si mette a nudo, finché per un attimo non rimane altro che feedback e doppia cassa, per il tripudio dellaccelerazione e della cacofonia. In Axion, fra hardcore, post-punk e jazz (da brividi la chiosa à la Morphine), il lavorio ai tom di Battaglia si scarica con spietatezza in un delirio strumentale dalle fattezze orgiastiche. Come se limponente cima della copertina smottasse bruscamente addosso ad una cordata di intrepidi alpinisti.
Metodicità + applicazione + divertissement + cazzeggio (sicuri?). Ecco la ricetta che fa grande gli Zu. Ed il risultato, posto in chiusura, è mirabile: Obsidian è un panzer psichedelico dalle improvvise striature post metal (i Pelican in salsa jazzcore? Yes, we can!), che lo incorona momento migliore del disco, mentre Orc ne confonde i tratti somatici frammezzo a un ambient tribale, puntuto e maestoso.
Maestro Uderzo, diccelo tu: Sono Pazzi Questi Romani!
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