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R Recensione

6,5/10

Converge

All We Love We Leave Behind

Alla voce “rabbia”, i Converge scrivono impegno etico. Che suona un po’ come la scusa, comunemente utilizzata, per giustificare le improvvise traslazioni dal suono al suo contorno. Per quanto di tutto rispetto, ché di offese risuonano gli angoli di mezzo mondo, contorno rimane. In un mondo che si riscopre vegano ed antispecista – ma fieramente misantropo, ottuso, antiecologista – non vorrei essere Jacob Bannon, che di tali valori è uno dei portabandiera migliori e più rinomati della scena hardcore (leggi: hardcore evoluto, math-core, metalcore et cætera) americana. Si scoprirà in imbarazzo, lui, pioniere di ieri tra gli emuli di oggi, o continuerà a rivestire il suo ruolo di nuovo guru, faro tra le tenebre, fonte di ispirazione di molti giovani artisti di musica pe(n)sante (ultimi, ma non per ultimi, gli italianissimi A Flower Kollapsed)? Difficile, quand’anche non impossibile, scendere da un trono dorato che anni di metodico impegno e fantasioso tatticismo hanno contribuito a far erigere.

Per i Converge vale un discorso similare a quello fatto, la scorsa primavera, in occasione di “Utilitarian” dei Napalm Death: questi ragazzi non mollano mai. Nel bene e nel male. Dopo aver fatto scuola, passano alle ripetizioni. E la loro idea di crossover estremo, armonie tentacolari disintegrate da bordate noise e siluri ritmici, se pure non stupisce e nemmeno riesce a raggiungere più le vette di “Jane Doe” (ma chi ci riuscirebbe?), sta ancora lì, in alto: a dettare legge. Sfumatura in più sfumatura in meno, “All We Love We Leave Behind”, ottavo platter in studio, si riconosce immediatamente come disco autografo, dall’inizio alla fine. Da quando “Aimless Arrow” si allunga in ghirigori dispari, inanellando in successione riff ed arpeggi difficili ancor più per postura che per realizzazione, agli apocalittici framework sludge di “Predatory Glow”, infibulata dai feedback e rotta in più punti dagli stessi spasimi che rendevano così unici i Black Flag di “Damaged”, sfila una tracklist eccezionalmente omogenea e compatta nel suo scorrere roccioso, impenetrabile, ancora vincente. Certo: è pur sempre un disco dei Converge, urlatissimo, zigzagante, imprendibile (la violenza sonica delle pelli di “Trespass”, il crust riletto dagli ultimi Agoraphobic Nosebleed, mette spavento), a tratti ardito (il post-core laccato metal matematico di “Glacial Pace”), a tratti languido ed emozionale, anche dove non esplicitamente sollecitato (la title-track ed il ballo geometrico dei tapping in un crescendo contestualmente screamo poco a fuoco). Poco, da una parte e dall’altra, si discosta dalla formula tradizionale: manca la sorpresa folk del predecessore “Axe To Fall” (“Cruel Bloom”), ma l’intermezzo evocativo di “Precipice” e la magniloquente cerimonia doom di “Coral Blue” – con centrale apertura melodica, quasi sinfonica, arrangiata superbamente – fanno la loro straordinaria figura, così come la scudisciata noise-core di “Runaway” risulta poco meno che devastante.

Personalmente, ad esprimere una preferenza su “All We Love We Leave Behind”, adoro il modo in cui il riff blues di “Sadness Comes Home” viene mandato al macero, stile Jesus Lizard o suppergiù, da un grande Kurt Ballou, che lo rivolta poi come un calzino e lo trasforma in una cangiante fucilata math-core. Mi rendo conto, altresì, che parlare di Converge nel 2012 è guardare da una prospettiva schierata e ben definita. Se il loro periodo aureo vi ha lasciati indifferenti, impossibile farseli piacere ora, capaci musicisti la cui perpetua metamorfosi è stata eletta sponsor ufficiale di un tangibile, concreto conservatorismo.

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Voto degli utenti: 8,6/10 in media su 6 voti.
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Lelling 8,5/10

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