Battles
Gloss Drop
Lurlo di Braxton, Tyondai Braxton, spaventava lOccidente. Datemi un marshmallow e vi conquisterò il mondo!, ce lo si immagina a sentenziare con gli storditi dei suoi colleghi a ridere sotto i baffi. Un blob inarrestabile che cresce, si alimenta da sé, assume proporzioni pantagrueliche. Quel dolcetto è ora diventato una montagna che oscura il sole e proietta la sua ombra sugli astanti circostanti, compresi i suoi ideatori e scalatori. Ora lurlo di Braxton, Tyondai Braxton, spaventa solo sé stesso. Il mio regno per un marshmallow!, sospira affranto: una riedizione vagamente Y2J della successione biblica di Esaù. Chi è stato lo sciagurato ad affermare che chi ben comincia è a metà dellopera? Sarebbe stato meglio dire: lascia lopera a metà. Così Braxton, Tyondai Braxton, se ne va, ed i sodali Konopka e Stanier si trasformano per un istante in Battles Caballero, i nonnetti arteriosclerotici da cui a suo tempo fuoriuscì proprio il talentuoso chitarrista Williams. La maledizione di chi stravolge il math avrebbe potuto ripetersi. Grazie a Pitagora, esiste un condizionale passato irreale in grado di smentire subito tra le righe lipotesi di chi anelava a mettere sulla graticola, ad appena (insomma) quattro anni di distanza, le menti eccelse a capo di Mirrored.
Per cui, ricapitolando: Gloss Drop è, tutto sommato, un travagliato seguito che ha subito innumerevoli vicissitudini e che, questo sì, corre perennemente il rischio di specchiarsi nei milieu paralleli più volte forgiati fra i colpi ad effetto di un predecessore, lo diciamo?, baciato da uno stato di grazia francamente irripetibile. Meglio andarsene ripetendoselo: irripetibile. Inutile cercare con il lanternino il coniglio gigante fuoriuscito dal cappello. Mirrored benedisse lascesi di una tra le più grandi band, formalmente e concettualmente, del Nuovo Millennio: Gloss Drop volta pagina e, per contraccolpo, si sforza incessantemente di trovare una nuova identità, di reinventare un nuovo spirito, di captare perciò i feedback di un nuovo gruppo ed i prodromi di uno stile nellinsieme consolidato perché solo ed esclusivamente loro e rinnovato nelle sue componenti più ludiche, giocattolose, disimpegnate. Con il divorzio da Braxton evaporano la decostruzione anarcoide, il colpo di biliardo, finanche una sovrapposizione di umori che ricercava nellassurdo e nel paradossale la sua esistenza e mirava a distruggere, con cariche piazzate, laccademia matematica di una musica ormai sul punto di cristallizzarsi. Rimangono anche, tuttavia, parecchi episodi di cui felicitarsi.
Lalbum è, come volevasi dimostrare, quasi interamente strumentale, e solo lapporto di quattro ospiti vocali, peraltro fra loro diversissimi, permette una maggiore stratificazione di ruoli e sonorità. Matias Aguayo regala al singolo Ice Cream lassassino tocco clubber che si sarebbe altrimenti perso nello sforzo collettivo di sintetizzare il disordine irrazionale di Ddiamondd ed il solido onirismo psichedelico di Tij. La dolce Kazu Makino è chiamata ad interpretare Sweetie & Shag, dimenticabile filastrocca elettro-pop sin troppo frivola e danzereccia. In My Machines, lucido delirio jungle abbarbicato attorno ad una potentissima linea di basso, Gary Numan adempie ai doveri di pontefice massimo dellistante, seguendo da vicino la frenetica evoluzione del brano verso una futuristica, travolgente odissea rock. Giganteggia Yamatsuka Eye in Sundome, otto minuti di quotidiano dadaismo orientaleggiante dove gli spigolosi vuoti drumnbass della sezione ritmica sono riempiti di grugniti, versi, monosillabi e la sensazione che si genera è quella di un divertimento costante, inarrestabile, spontaneo.
È però più stimolante, al netto dellascolto, osservare come i tre Battles residui, privi di un apporto terzo a materiale concluso, abbiano elaborato un corso innovativo e già sorprendentemente, perfettamente strutturato. Lapertura con Africastle spariglia la creatività di una fuga ipercinetica in bilico fra tradizione ed innovazione, con gli strati di riverbero di chitarre quasi surf frantumati dallo strapotere fisico di uno Stanier oggettivamente senza rivali e rimescolati in un insistito vortice di neo-math crimsoniano. Futura nasce con lintento dichiarato di ricoprire le veci di una vice-Tonto, allargando poi il suo raggio dazione ad incastri post-post-rock di scuola Fridge ed a reminescenze zappiane dalt(r)a scuola. Il colorato uragano di Wall Streeet, un martello pronto per spopolare su buona metà dei dancefloor mitteleuropei, è pronto per essere riassorbito dallindustrial funk in controbalzo di Inchworm, istrionica dimostrazione di bando al solipsismo in ipso, non correttamente inserito dentro precisi meccanismi di comunicazione interna, e soprattutto da White Electric, imponente incedere avant-rock a zig-zag sullonda di una strepitosa fanfara in crescendo, a rilascio graduale.
Per questo turno è stata proprio, come suggerisce il monicker, una battaglia. Gloss Drop parla al presente, cita il passato ed è pronto per lanciare il guanto di sfida al futuro. Cè riuscito: dora in avanti sarà un altro capitolo ancora. In bocca al lupo, ragazzi.
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